Game over Ascesa e finalmente caduta di Matteo Messina Denaro, stragista e fimminaro

Gli affari, le pale eoliche e i cimiteri pieni del boss cresciuto all’ombra di Totò Riina. Oggi ricordiamo, tra le tante vittime, Nicola Consales

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«Come lo avete riconosciuto, date che non sapevate nulla di lui?». «Aveva addosso un orologio da trentamila euro». E come potevano sbagliare, la mattina del 16 Gennaio 2023, i Carabinieri. Anche a sessant’anni, anche sotto i colpi di un tumore in stato avanzato, e sotto il peso della latitanza, Matteo Messina Denaro fu Francesco, nato a Castelvetrano il 26 Aprile 1962, professione contadino, capo di fatto di Cosa Nostra siciliana, e fino a ieri imprendibile boss latitante dal 2 Giugno 1993, al lusso non rinuncia.

Da giovane d’altronde, era famoso proprio per questo: le camicie firmate, gli abiti Armani, lo champagne al tavolo, le auto fuoriserie, gli orologi, appunto. E le fimmine. Quante donne per Matteo Messina Denaro, boss atipico anche in questo: mai, prima di lui, a un capomafia sarebbe stato consentito di avere una compagna, e di avere addirittura una figlia fuori dal matrimonio.

Adesso che per lui è arrivato il game over, si chiude il capitolo di una storia criminale lunga quasi mezzo secolo, cominciata quando lui era ragazzino, e già a quindici aveva iniziato a sparare nella Castelvetrano di pietra degli anni Settanta.

Da lì ai primi omicidi il passo è breve, d’altronde lui è figlio di Don Ciccio Messina Denaro, è un predestinato. Suo padre è il capomafia della zona del Belice, nella parte sud occidentale della Sicilia. È spietato, ma anche sconosciuto alle forze dell’ordine. E quando Totò Riina decide di scendere in campo, dalla provincia di fango di Corleone, per prendersi Cosa Nostra e fare fuori le famiglie palermitane e tutti quelli che non stavano con lui, Don Ciccio Messina Denaro si schiera e mette il suo figlio Matteo proprio come luogotenente di Riina, che anni dopo ricorderà: «Suo padre mi ha dato questo figlio per farne un uomo».

I Messina Denaro sono accanto a Riina nella guerra di mafia che sparge centinaia di morti, incendi e terrore in Sicilia occidentale a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Sterminati gli avversari, Riina decide che adesso il capomafia della provincia di Trapani è Don Ciccio Messina Denaro.

Sono gli anni dei soldi facili, dei milioni di dollari del traffico di droga, della spartizione dei grandi lavori pubblici. Matteo Messina Denaro cresce come un giovane leader, è padrone di Castelvetrano, vuole rispetto. Il suo amico del cuore, Lillo Santangelo, verrà ucciso nel 1985 perché aveva osato vendersi una partita di droga per i fatti suoi. Ma è solo uno dei tanti episodi criminali della sua vita.

Matteo Messina Denaro cresce all’ombra di Riina, con lui partecipa all’ideazione delle stragi del 1992, la folle guerra allo Stato che sarà anche la rovina di Cosa Nostra. Riina gli affida compiti delicati: andare a Roma a pedinare Maurizio Costanzo e Giovanni Falcone, organizzare gli attentati, ma soprattutto, da bravo luogotenente, sparare alle spalle di chi fugge, di chi, dentro Cosa Nostra, non vuole l’attacco allo Stato perché teme la vendetta.

E così Messina Denaro ucciderà i capimafia di Marsala che si rifiutano di organizzare l’attentato a Borsellino, e poi il suo amico boss Vincenzo Milazzo, suo coetaneo, che aveva cercato di contattare i servizi segreti per fermare Riina. Con lui viene strangolata e uccisa la compagna, Antonella Bonomo.

Dopo le stragi, preso Riina, capisce che il suo tempo sta per scadere, ed è latitante. Inizialmente, con il padre Ciccio, che muore, il 30 Novembre del 1998, consegnandosi allo Stato nel modo più incredibile: dopo otto anni di latitanza (passata nel centro di Castelvetrano) il suo corpo viene fatto trovare davanti i cancelli dell’ospedale già vestito e pronto per il funerale.

Da latitante, Messina Denaro guida molti affari, vecchi e nuovi: il traffico di opere d’arte, il business dell’eolico, la grande distribuzione. In una lettera a Bernardo Provenzano, nel 2004, spiega quanto è conveniente e facile aprire un supermercato: lui, in quel periodo, ne controlla una trentina nella provincia di Trapani ed Agrigento.

Di sé dice che con le persone che ha ucciso può riempirci un cimitero, ed è vero, così come è vero che è l’ultimo custode dei segreti più inconfessabili che l’Italia si porta nel periodo a cavallo tra prima e seconda Repubblica.

Il 16 Gennaio del 2023 è finita la sua impunità. Fino al 1992 i Messina Denaro erano completamente sconosciuti alle forze dell’ordine. Non solo, quando, nel 1991, Paolo Borsellino, Procuratore a Marsala, intuì che forse c’era questa misconosciuta famiglia di Castelvetrano a tenere le fila di Cosa Nostra trapanese, non potendo arrestare Don Ciccio, chiese al Tribunale di Trapani quanto meno l’emissione di un misura di prevenzione personale. La risposta fu agghiacciante: «Francesco Messina Denaro è una brava persona. E i Messina Denaro risultano essere conosciuti e stimati nella Palermo bene».

La stessa latitanza sembra cominciare con anni di vantaggio. Le ricerche a livello internazionale partono solo nel 1994, e fino all’arresto di Bernardo Provenzano, nel 2006, in pochi conoscono la storia di Messina Denaro. Ancora, è uno dei registi delle stragi del ‘92, ma il processo a suo carico comincia solo venticinque anni dopo.

Nel 1998 le forze dell’ordine sono certe di averlo preso. Sta a casa di una sua amante, Maria, vicino Bagheria. Riempiono il covo di cimici. Ma lui non passa più. Dopo un anno capiscono che qualcuno lo ha avvisato. E si scoprirà, poi, che è scappato a bordo di un’ambulanza.

Oggi che la sua storia è finita, non possiamo non pensare alle vittime della mafia, e alle sue vittime. Verrebbero in mente tanti nomi, ne scegliamo uno. È quello di Nicola Consales. Aveva 43 anni, era il vice direttore di un albergo di Selinunte ed era una brava persona. Fu fatto uccidere a Palermo, da Messina Denaro, perché si era innamorato anche lui della stessa donna, una ragazza austriaca. È l’unico caso, nella storia della mafia, in cui il boss ordina l’omicidio di una persona ad altri boss, e fuori dal suo mandamento, solo per motivi passionali. Anche per lui, giustizia è fatta.

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