Sanremo è una forma di welfare comunicativo. Ogni anno garantisce due mesi di carro di visibilità su cui salire per avere il proprio titolo di giornale. Tre anni fa ne approfittarono le femministe dell’Instagram, quando Amadeus disse che la fidanzata di Valentino Rossi stava un passo indietro: poteva non approfittarne Matteo Salvini?
«Poi, se lei mi chiede se guarderò il festival di Sanremo per ascoltare una canzone o per vedere Zelensky, come milioni di italiani se avrò dieci minuti di tempo per guardarmi il festival di Sanremo mi ascolterò Giorgia, Ultimo, Grignani, perché dal festival della canzone italiana mi aspetto delle canzoni».
Di questa frase, che ho trascritto dalla puntata di “Otto e mezzo” di giovedì, vanno chiariti un paio di punti. Il primo è che nessuno glielo stava chiedendo: quando dice ad Alessandro De Angelis «se lei mi chiede», Salvini non sta rispondendo a un intervento su Sanremo, ma a uno sull’eventuale passaggio parlamentare dell’invio di armi. Ma, se Salvini avesse parlato di noiose procedure parlamentari, il Corriere non se lo sarebbe filato; così, invece, ha potuto titolare «Sanremo, il fronte contro Zelensky: da Matteo Salvini a Fabio Volo». Il welfare della visibilità funziona.
Il secondo punto è che la virgola dopo Zelensky l’ho messa io, in un impeto d’interpretazione caritatevole. Si potrebbe metterla dopo «italiani», e il senso diventerebbe che milioni di italiani lo guardano per Zelensky. Ma credo di rispettare le intenzioni comunicative di Salvini mettendola lì: credo che Salvini voglia dire che milioni di italiani aspettano Grignani, e non i vestiti della Ferragni. Credo che Salvini sia disposto a fingersi uno che non capisce Sanremo.
Milioni di italiani hanno le canzoni gratis su Spotify o altrove: non devono neanche comprarsi le musicassette come una volta. Milioni di italiani guardano Sanremo per le ragioni per cui si guarda un vero evento nel secolo che chiama “evento” a sproposito pure l’inaugurazione d’un negozio di frutta e verdura. Milioni di italiani, proprio come Salvini, capiscono Sanremo.
Elenco non esaustivo di momenti che vengono in mente ripensando ai Sanremo degli ultimi quarant’anni. Beppe Grillo che dice che i socialisti rubano. Beppe Grillo che tre decenni dopo, essendo una battuta sui socialisti che rubano una roba per cui la tua carriera di comico in Rai si arena, e avendo quindi montecristicamente dedicato la sua successiva vita a fare la politica del moralizzatore, compra un posto in platea all’Ariston, minacciando di intervenire in diretta per parlare degli sprechi.
Fabio Fazio che ospita Gorbaciov. Paolo Bonolis che ospita Mike Tyson. Carlo Conti che ospita una famiglia di Catanzaro con sedici figli. Pippo Baudo che ospita gli operai dell’Italsider. Pippo Baudo che salva il suicida. Pippo Baudo che scrolla via quello che dice che Sanremo è truccato e lo vince Fausto Leali.
Jovanotti che chiede a D’Alema di cancellare il debito dei paesi africani, assieme a Bono, Bono che poi scende in platea cantando e viene intercettato da Mario Merola, e la sera dopo Teocoli che fa la parodia di Lorenzo, «io mi rivolgo a lei, presidente Berlusconi, l’unico che ha vinto cinque coppe dei campioni».
Certo che Sanremo è fatto soprattutto di dettagli extramusicali, storici o frivoli ma comunque in grado di passare dallo schermo ed entrare nel lessico famigliare del pubblico: Gorbaciov vale quanto Anna Falchi che presenta nell’anno in cui il fidanzato Fiorello è in gara. Vale quello che catalizza l’attenzione del paese, e in questo senso non è affatto detto che un Nobel per la pace valga più che una seconda classificata a miss Italia.
E certo che è normale che Salvini si accolli il ruolo di paranoico complottista che finge di non capire il meccanismo e ne approfitti per far polemica politica: è Sanremo stesso che incoraggia il ruolo.
Nel 2000 ero a Sanremo a fare, nella settimana del festival, un programma per RadioRai. Questo dettaglio mi rendeva una privilegiata: avevo un pass Rai, che diversamente dai pass che hanno quelli dei giornali permetteva di accedere ovunque sempre. Quindi vidi le prove di Teocoli, e il ritornello della canzone in cui parodiava Lorenzo diceva «Gira la ruota» (se non sapete cosa fosse «gira la ruota», ormai per voi è troppo tardi: la cultura popolare del Novecento non la recuperate più).
La sera, «gira la ruota» non c’era. Restai per anni convinta d’una censura Fininvest: è Sanremo, mica accadrà qualcosa per caso. Anni dopo intervistai Teocoli e glielo chiesi. Mi disse che in diretta s’era dimenticato il ritornello. La realtà non è mai ben sceneggiata quanto le nostre paranoie.
Però la realtà imprevista a volte è meglio di quella programmata. Nel 2014, Grillo è su tutti i giornali perché ha comprato il biglietto in platea. È tornato ricco e spietato, come montecristicamente diceva di sé Nino Manfredi in un film (il titolo se l’avete visto lo sapete, altrimenti di nuovo: per voi ormai è tardi).
Quella sera, l’inizio della serata mette a dura prova i nervi di Fabio Fazio. Prima non si apre il sipario, un dettaglio che se lo metti in una commedia te lo bocciano per inverosimiglianza: è la serata più importante della tv italiana, e il sipario s’inceppa. Poi ci sono due millantatori di suicidio che minacciano di buttarsi da una balconata. Fabio Fazio, pur stremato, ha i tempi comici di uno che fa la tv da un secolo. Durante una pubblicità guarda il Montecristo seduto in platea e gli scandisce: «Beppe, puoi tornare a casa».
Quindi, figuriamoci se è un problema che a Sanremo vada un minuto o due di video di Zelensky, tradotto in italiano perché mica vogliamo distrarci dai sottotitoli come durante l’intervista a Letterman. Intervista a Letterman, su Netflix, su cui non c’è stata nessuna polemica giacché gli americani, non avendo Stato, quasi non hanno neppure televisione pubblica, e né i Salvini né le Vongola75 di lì possono recriminare che si faccia propaganda politica coi-soldi-del-canone.
Noi abbiamo il limite dei soldi pubblici e delle annesse polemiche, ma pure parecchi milioni in più di spettatori rispetto a un prodotto che andrà pure in tutto il mondo ma raccoglie le briciole della frammentazione dello streaming. Tra le poche cose rimaste immutate dal Novecento, il fatto che Sanremo e la finale dei mondiali li guardino tutti, li ricordino tutti, li capiscano tutti.
Persino Salvini, che è pur sempre la Ferragni della politica: simile al pubblico, cioè all’elettorato. Lo sa benissimo, che Zelensky a Sanremo è fisiologico quanto lo è Pupo (è come se vedessi le riunioni, «di’ a coso, Zelensky, di non sforare, abbiamo il tassativo»: che tu abbia in collegamento la guerra o i figli di Al Bano e Romina, comunque la pubblicità deve andare a quell’ora).
Lo sanno tutti, Salvini e Fabio Volo e tutti quelli che polemizzeranno nelle prossime settimane. Ma è giusto abbiano la loro risonanza: sono la prova che Sanremo è la migliore e più efficiente espressione dello stato sociale.