Avete tutti tortoSiete noiosissimi, cionondimeno siete tutti prezioso materiale narrativo

I deliri narcisistici, le banalità e le prediche online o sul treno mi servono moltissimo (anche per questo articolo). Ma mi chiedo: a leggere Vongola75 invece di Proust, finirò per disimparare a usare le parole?

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Una volta avrei twittato. Avrei – in 140 battute nello scorso decennio, 280 più di recente – regalato a gente che non comprerebbe mai un mio libro il mio prezioso motteggio sui fatti del giorno. Le donne che lamentano le troppe opinioni maschili sulla gestione dei neonati in ospedale? Pronti, via: «Ma quindi esistono di nuovo le donne, non bisogna più dire “persone che mestruano”, questa tragedia a qualcosa è servita». La battuta del marito della Ferragni su Emanuela Orlandi? Eccomi: «Il punto non è se l’oggetto della battuta è drammatico, il punto è se l’esito della battuta non è comico».

Non credo che ci sia un fatto del giorno su cui una persona che lavora con le parole non sappia trovare parole, e questo al netto dell’illusione social per cui ogni Vongola75 si sente Karl Kraus. Una volta, in un punto imprecisato tra quel Nanni Moretti che scandì che le parole sono importanti, e l’oggi in cui ripetiamo la frase del film avendola svuotata d’ogni significato (e quindi smentendola), una volta avrei avuto voglia di dire cose.

Questo non è un articolo per dire che lascio i social. Lo specifico perché conosco i miei polli. I polli che, diciassette mesi fa, quando scrissi che mi ero rotta i coglioni dei social ma avevo come tutti la sindrome di Stoccolma, e come tutti ci restavo anche se mi facevano schifo, passarono settimane a twittare «beh? non doveva andarsene? come mai è ancora qui?» (mica potevano googlare “sindrome di Stoccolma”, devo imparare a metterla giù più facile).

I polli che da una settimana rispondono, in articoli e interviste, a un articolo della Stampa in cui Concita De Gregorio avrebbe annunciato il suo abbandono dei social. Solo che in quell’articolo lei non annunciava alcun abbandono. Lo so: i lettori leggono solo il titolo, e i giornali titolano l’articolo che gli avrebbe fatto piacere pubblicare al posto di quello che gli hai effettivamente mandato.

Questo è un articolo per dire che hanno tutti torto, come spesso accade. Quelli cui urge esprimersi sul tema del giorno, e quelli che li sgridano. Quelli che per dire che bisogna esprimersi meno scrivono duecentocinquanta righe (Time, che la settimana scorsa ha dedicato alla raccomandazione circa lo starsene zitti la copertina), e quelli che si contano i like e ritengono siano una dimostrazione che sono nel giusto. Hanno tutti torto, ma soprattutto sono tutti noiosissimi.

L’altro giorno una tizia mi ha parlato. Nessuno dei miei amici ci crede, quindi lo scrivo qui per renderlo ufficiale. C’è, a piede libero, una tizia in Italia che nota la mia amabile espressione e cambia posto per venirmisi a sedere di fronte e raccontarmi la storia della sua vita. Che è noiosissima, giacché in un ecosistema in cui non si preoccupa d’essere interessante la gente che inviti a cena figuriamoci se si pone il problema una sconosciuta in treno.

I miei amici non ci credono perché, quando provano a raccontarmi la storia della loro vita, io dico cose amabili quali «Lo sai, vero, che non sei un conversatore interessante» o «Sì, dai, raccontami per la quattrocentesima volta questo aneddoto, le prime trecentenovantanove mi ha così avvinta».

Non credono che sia rimasta lì, inerte, a subire i dettagli della tizia sul figlio iscritto a filosofia (ettepareva), la mancata intelligenza affettiva dei milanesi, la qualità della vita in Toscana, il part time che non le vogliono concedere ma lei ha diritto a tempo per sé. I miei amici non hanno ancora capito che certo che ascolto la tizia, certo che non me ne vado dai social: è tutto materiale.

La mediocrità degli esseri umani è materiale narrativo preziosissimo, e in una conversazione di brillante basto e avanzo io, ma nei momenti di malumore mi assale un dubbio: sarà contagioso? A leggere Vongola75 invece di Proust, finirò per disimparare a usare le parole?

Il dubbio che, a usarle gratuitamente, esse comunque si svalutino non ce l’ho: è una certezza. Perfino Hanif Kureishi, da un letto d’ospedale, dopo qualche giorno di degustazione del prodotto ha trasferito le sue cronache di degenza da Twitter a Substack, a pagamento. È paralizzato, mica dilettante.

L’altro giorno una persona che lavora in un giornale ha scritto su Facebook un ottimo editoriale sulla questione del neonato morto. Le ho detto: ma lo pubblichi sul giornale, vero? Mi ha risposto che no, sul suo giornale non pubblicano quel genere di pezzi (il genere interessante? il genere con subordinate?), ma stavano raccogliendo storie di parto. Mi è sembrato un eccellente bollettino del disastro in corso. Quelle che saprebbero scrivere sacrificano la loro prosa all’altare dell’arricchimento di Zuckerberg; e i giornali pubblicano il vissuto delle non professioniste, le quali dovrebbero comprare i giornali per leggere altre dilettanti come loro, che hanno esperienze e non opinioni, vissuto e non studi, emotività e non prosa.

Persino in un programma emotivo del sabato sera, “C’è posta per te”, hanno chiaro che le storie vanno raccontate dai professionisti, e quindi le ricostruisce Maria De Filippi e non il caso umano di turno, ma nei giornali no. Cosa potrà mai andar storto.

Dice Time che bisogna strologare meno sui fatti propri e lasciare un po’ di mistero. Che bisogna essere meno il principe Harry e più Dirty Harry. Gioco di parole intraducibile giacché il film sull’ispettore Callaghan in Italia non s’intitolava “Dirty Harry”. Ma anche battuta rispetto alla quale Vongola75 obietterebbe sì, ma le cinquecento pagine di fatti suoi del principe Harry hanno venduto settantanovemila copie nei primi sei giorni, col silenzioso carisma e il sintomatico mistero io come diavolo fatturo? Le si potrebbe rispondere con gli incassi di “Ispettore Callaghan”, ma era il 1971: gli italiani pagavano il biglietto per il cinema, invece di mettere gratis like alle gratuite opinioni social.

E poi ci sarebbe un’altra obiezione, che Vongola75 non è in grado di concepire ma io sì, solo che non sono poi in grado di scioglierla e infatti diciassette mesi dopo mi strazia nello stesso modo. “Ispettore Callaghan” devi saperlo scrivere, dirigere, recitare. È un’opera dell’ingegno, non della fama. Vongola75 non saprebbe concepirla, e quindi ripiega sui motteggi gratuiti; ma noialtri, che scusa abbiamo?