Per la designer trentaduenne di origini danesi Anna Aagaard Jensen una sedia non è mai soltanto una sedia ma uno strumento attraverso cui esercitare l’autorità patriarcale. Un’affermazione che potrebbe sembrare eccessiva a meno di non considerare che la storia della sedia e del sedersi in generale è in gran parte quella dello status e del potere in Occidente (status e potere tradizionalmente detenuti dagli uomini), come documentava anche l’esposizione Seats of Power ospitata qualche anno fa dal Vitra Design Museum di Weil am Rhein in Germania.
Per questo motivo Jensen ha creato A Basic Instinct, una sedia riservata esclusivamente alle donne ma progettata in modo tale da far assumere una posizione tipicamente maschile, ovvero appoggiate allo schienale con le gambe divaricate. Il nome è preso in prestito dal thriller erotico del 1992 del regista Paul Verhoeven. Come insegna infatti la seducente Sharon Stone nel film, «a noi donne», spiega la designer, «non è concesso sederci con le gambe divaricate a causa della connotazione sessuale che il gesto porta con sé».
Il progetto A Basic Instinct, presentato come tesi di laurea alla Design Academy di Eindhoven, preannuncia i successivi lavori realizzati per la Functional Art Gallery di Berlino e la galleria Etage Projects di Copenaghen. In tutti predomina la riflessione sul corpo e il ruolo della donna nella società. Con un ulteriore tratto comune: l’utilizzo del rosa – vivido, acrilico – per rimandare all’artificio del make-up.
«Un secondo strato per le sedie e una seconda pelle per noi», dice Jensen. La designer, che fa parte anche del collettivo multidisciplinare Morph e insegna alla Gerrit Rietveld Academie di Amsterdam, ha dichiarato di essere stata a lungo influenzata dall’artista Sarah Lucas: «È uno dei miei più grandi idoli. Ammiro molto il suo lavoro. La sua arte mi ha aiutato a trovare me stessa, il mio stile e mi ha dato la convinzione di star facendo la cosa giusta».
Nata nel 1962 a Londra, esponente di spicco della generazione dei cosiddetti Young British Artists emersa alla fine degli anni Ottanta, Sarah Lucas è forse una delle artiste inglesi più provocatorie degli ultimi trent’anni, capace con le sue opere – sculture, fotografie, ma anche performance – di affrontare in maniera non convenzionale i temi di genere, sessualità e gerarchia.
In anticipo sui tempi, Lucas ha effettivamente aperto la strada alle espressioni creative di molte donne – la stilista Bella Freud, la pittrice Tschabalala Self; secondo il critico d’arte Massimiliano Gioni neppure Lara Croft esisterebbe oggi senza Sarah Lucas – tanto da avere spinto un’istituzione museale come la National Gallery of Australia a presentare il suo lavoro all’interno del progetto espositivo Know My Name, che rilegge l’arte australiana dal Novecento a oggi in una prospettiva più inclusiva.
Non è un caso isolato: ovunque nel mondo si moltiplicano le iniziative volte a valorizzare (o riscoprire) il contributo delle donne in tutti i campi della creatività. Da The Great Women Artists, insieme podcast e account Instagram della curatrice e storica dell’arte Katy Hessel, al Female Design Council fondato da Lora Appleton con l’obiettivo di raggiungere la parità di genere anche nel design.
Tra i collettivi a sostegno del talento femminile, Misschiefs è approdato lo scorso giugno a Milano negli spazi di Fabbrica Bini, un ex stabilimento industriale degli anni Trenta dove ha preso casa la designer Gentucca Bini. Nato nel 2020 da un’idea della gallerista svedese Paola Bjäringer, il progetto si propone di mettere in mostra il lavoro di artiste, designer, maker e performer donne (o non-binary) accomunate da un’attitudine punk.
Per ogni città in cui Misschiefs fa tappa, una curatrice invita un’artista locale a creare un’opera ad hoc. Contribuendo in questo modo a far crescere l’iniziativa. Ad aver ispirato Bjäringer, come lei stessa ha ammesso, è stata la constatazione «di quanto la scena del design svedese fosse profondamente maschile, bianca ed eterosessuale». Di qui il ritrovato sogno di emancipazione: «Sapevo che le donne erano là fuori. Avevano solo bisogno di spazio».