Non chiamateli piatti Stefanie Hering è la Signora della ceramica

Nel mondo sono in pochi - o forse nessuno - a lavorare questo materiale con la maestria e l’audacia della designer tedesca, che abbiamo intervistato durante un evento a Roma: «Amo il materiale puro, cristallino, declinato nella sua più profonda bellezza che emerge dal e grazie al gesto creativo», ci ha raccontato

Courtesy of Gaggenau

Stefanie Hering è la Signora della porcellana. Il suo bianco assoluto, lo stile minimal e raffinatissimo la rende una delle artiste-designer più amate tanto dagli interior designer quanto dai più importanti chef stellati nel mondo. Chiamare le sue creazioni piatti è riduttivo: vibrante è sempre la tensione al superamento dei limiti che la avvicina al mondo dei noti artisti italiani del vetro – Laura de Santillana – e del legno – Fulvio Morella

Nell’arte contemporanea questa ambiguità tra arte e design fa emergere un ritorno alla materia, quasi a segnare un solco con il mondo virtuale degli NFT. L’abbiamo incontrata da Gaggenau Roma all’evento “Contrasti”, organizzato da Francesca Romana Straffi. Durante una raffinatissima Cerimonia del tè – ovviamente bianco – abbiamo approfondito con coraggio e un pizzico di provocazione la storia della sua carriera tra arte e design parlando di Bauhaus, Walter Benjamin, tecnica e fuoco.

Stefanie per tutti sei la Signora della porcellana: come sei arrivata a questo “amore”?
«In quarant’anni ho provato a lavorare con tutte le diverse ceramiche, ma la porcellana è insuperabile nella sua purezza e nelle sue capacità espressive. Allo stesso tempo è una sfida enorme, e forse questo è il motivo di un amore così longevo: la porcellana è una vera disciplina suprema, nelle mani e nella testa. Oltre alla ceramica amo sperimentare altri materiali, come il vetro, mia seconda passione, ma anche metallo, legno e tessuti. Il confronto con le specifiche dei materiali e le loro tecniche di lavorazione tradizionali è un impulso decisivo per il mio lavoro di designer e di artista. Le sfide tecniche mi piacciono, sono un modo per esercitare e disciplinare in primo luogo la mente e questo per me è la mia arte personale».

La tua arte è a tratti ascetica. Il candore la contraddistingue sempre, quasi ricercassi una forma di purezza assoluta.
«Amo il materiale puro, cristallino, declinato nella sua più profonda bellezza che emerge dal e grazie al gesto creativo. Con la porcellana, il bianco è affascinante, ancora di più quando emerge per contrasto dall’affiancamento a superfici ruvide o opache. La mia purezza emerge spesso dal contrasto: nel mio lavoro c’è o cerco di far emergere sempre una tensione che non è mai piatta». 

Courtesy of Bösenberg

Vetro e ceramica sono accomunati da un processo di realizzazione complesso in cui il fuoco e l’imprevedibilità giocano un ruolo fondamentale. Possiamo dire che la tua arte sia in fondo processuale?
«Il fuoco ha davvero l’ultima parola! Con la cottura la porcellana si restringe di circa il diciassette per cento e solo in questa fase l’opera diventa bianca e traslucida. Mi piace molto questo processo di catarsi verso la purezza, ed è quello che mi fa amare l’arte di questi materiali. Gioia e frustrazione sono spesso molto vicini quando si aprono le porte del forno. Più mi spingo all’estremo di ciò che è possibile con il materiale, più decisivo è il fuoco: i pezzi acquisiscono la loro unicità, l’essere umano è lasciato fuori dal processo, che gli è permesso soltanto di “innescare”. La sfida è questo tendere a riuscire a prevedere il più possibile gli effetti del processo di cottura, ottenere dal fuoco le forme che avevo sviluppato nella mia mente. Quindi, è un gioco con il fuoco, mai una resa all’imprevedibilità». 

Nella tua arte c’è tantissima tradizione, ma anche tecnica e manualità, che spesso caratterizzano il mondo design. Del resto, tu stessa sei artista e designer. Quale pensi sia la differenza tra design e arte?
«Nel design, un prodotto è sviluppato per un cliente o un mercato, il risultato deve unire estetica e utilità all’interno di una riflessione economica imprescindibile. Nell’arte il sentimento soggettivo e la volontà di esprimersi sono al centro, il beneficio materiale è irrilevante: alla fine a ben pensarci, solo l’artista dovrebbe essere soddisfatto della propria opera. Per me, i pezzi unici che emergono in un’esplorazione artistica sono istantanee necessarie per seguire un percorso, per sviluppare ulteriormente il mio linguaggio progettuale nel design: nella libera esplorazione artistica può infatti emergere un più ampio il canone di forme e strutture, da cui possiamo attingere anche nell’ulteriore sviluppo delle nostre collezioni». 

Courtesy of Tammen

L’innovazione tecnologica è un elemento che sempre più caratterizza e in fondo mette in contatto l’arte con il design. Walter Benjamin temeva molto questo sviluppo. Cosa ne pensi?
«Più che all’unicità del singolo pezzo, il mio interesse è più ampio e rivolto a una continua tensione alla perfezione di una forma. Questo può essere ottenuto nella porcellana solo con l’aiuto di utensili e stampi. Walter Benjamin è morto nel 1940 ed era anch’egli inevitabilmente frutto del proprio tempo e contesto storico. Senza tecnologia e progresso tecnologico non ci sarebbero nuovi stimoli per l’arte e si escluderebbero dal concetto di arte interi nuovi generi: possiamo permetterci di mortificare e censurare qualsiasi forma d’arte solo per la paura della tecnologia?».

Qual è quindi il tuo rapporto con l’unicità e/o la ripetizione dei pezzi e delle opere d’arte?
«Quando realizzo opere d’arte sono uniche e nel farlo uso il mio nome di battesimo e non quello dell’azienda. Sono una parte più intima. Spesso da questi stimoli nasceranno rivoli di lavori “ripetuti” di design, che però per me sono altrettanto unici: il mio design infatti è fatto a mano da mani appassionate ed esperte che amano ciò che fanno. Siamo sicuri che anche i prodotti di design siano tutti uguali tra loro? Le mani fanno sempre la differenza. Ogni superficie dei miei lavori prodotti in serie diventa unica attraverso la lavorazione individuale fatta a mano. Attraverso la traccia della mano che li crea, l’emozione viene trasportata e diventa direttamente percepibile allo spettatore e al consumatore. Perciò ho un rapporto sereno con la riproducibilità nel design, allorché vengano garantiti quei criteri di qualità e artigianali che fanno la differenza».   

Vivi e lavori a Berlino, ma il tuo lavoro così lontano dalla produzione di massa sembra lontanissimo dalla celebre tradizione tedesca della Bauhaus di Gropius, Theodor Bogler e Marguerite Friedlaender. Sbaglio?
«Il Bauhaus ha il grande merito di aver portato disegni artistici in oggetti di uso quotidiano e lo ha fatto con i mezzi di produzione industriale di massa. E’ stato fondamentale per una rivoluzione estetica, di cui ancora oggi godiamo i frutti, ma non è il mio modo di fare e soprattutto di pensare il design. Mi interessa lo sviluppo di un linguaggio formale compiuto, costantemente raffinato, realizzato con i migliori artigiani, non attraverso una produzione industriale di massa. Creiamo sì oggetti, ma con un tocco umano». 

Il tuo lavoro incentrato sempre sulla forma circolare dei piatti sembra negli ultimi anni essersi liberato, fatto scultura, quasi cubista. Dove stai andando?
«Per me, le forme circolari sono la forma della massima coerenza e perfezione. Da alcuni anni – sei o sette – ho però cominciato a lavorare sull’abbandono del centro, così importante da sempre nella lavorazione della ceramica. È un cammino sul filo del rasoio, ma in fondo è molto coerente alla mia ricerca artistica che si pone l’obiettivo di andare oltre i “limiti” precostituiti della tecnica e della materia. Questo passaggio ha richiesto un forte coraggio umano e imprenditoriale: non è facile sperimentare il talento creativo senza mai scivolare nella casualità gestuale che non mi interessa. Ripensando alla mia carriera, vedo questa creazione di volumi in movimento come un importante filo conduttore. Dove vado? Tendo ancora alla forma perfetta… anche al di fuori del baricentro».