L’occasione persa di RamsteinGli alleati offrono parole, non i carri armati di cui l’Ucraina ha bisogno

Gli Stati Uniti manderanno sistemi di contraerea, non i tank M1. Nonostante le pressioni internazionali e una risoluzione dell’Europarlamento, l’attendismo tedesco tiene bloccati, oltre ai suoi, anche i Leopard 2 degli altri Paesi

Un carro armato Leopard 2
Foto: Bundeswehr/Marco Dorow

Signor Scholz, abbatta questo muro. Invece niente. Davanti agli alleati dell’Ucraina, cinquantaquattro Paesi in tutto, nella base di Ramstein la Germania padrona di casa non supera le ritrosie sui Leopard 2, nonostante le pressioni americane. «Un centinaio di grazie non sono un centinaio di carri armati», sprona la platea il presidente Volodymyr Zelensky, che ha bisogno di tank per respingere le prossime offensive russe. In base ai contratti di fornitura del mezzo tedesco, il niet di Berlino paralizza anche le nazioni che vorrebbero mandarli. Il vertice si chiude sulla promessa di sistemi di contraerea Patriot. Sull’ottimismo che il veto sui panzer cadrà, presto. Non oggi, però. Un «prima o poi» in cui il «poi», cioè il fattore tempo, favorisce il nemico, Vladimir Putin.

Nella conferenza stampa, slittata di mezz’ora, il generale Mark Milley celebra una «Nato che non ho mai visto così unita». Nel temporeggiare. Il segretario della Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, a domanda precisa, risponde di non aver annunci da fare sui carri armati M1 Abrams. Il giorno prima ha visto in un bilaterale il nuovo ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius. Questi giorni sono la rinuncia di Berlino a una leadership europea, con la subalternità agli Stati Uniti come scusa. L’esecutivo di coalizione, infatti, ha vincolato lo sblocco dei Leopard all’invio degli M1 americani. A metà tra il conformismo e il ricatto.

«Fare come Olaf Scholz» è uno dei neologismi del conflitto. Significa sperticarsi in buoni propositi – predicare bene, insomma – ma tradirli sistematicamente, accampando giustificazioni a salve. Dodici Stati europei hanno i panzer in dotazione: oltre duemila, pronti nei magazzini. C’è una catena di produzione e ricambi già operativa che li renderebbe un aiuto militare sostenibile a Kyjiv. Sono l’ultima generazione di un modello progettato ai tempi della Guerra Fredda, proprio per battere sul campo i carri sovietici, da cui discendono quelli di Mosca. Il fatto che siano in dotazione a eserciti diversi permetterebbe agli alleati di distaccarne solo una piccola percentuale, senza compromettere i loro arsenali. I piloti ucraini andrebbero addestrati una volta sola.

I contratti in vigore, però, impediscono ai Paesi che ne hanno di esportarli senza l’autorizzazione di Berlino. È illegale, in teoria. Polonia e Finlandia vorrebbero mettere a disposizione alcuni dei loro Leopard 2. Un portavoce del ministero degli Esteri di Varsavia ha espresso lo «shock» per le resistenze tedesche, più che egoistiche in quanto ricadono sugli altri. Il primo ministro Mateusz Morawiecki ha detto espressamente che potrebbe non aspettare il permesso del cancelliere. Per il momento, Olaf Scholz frena il resto della coalizione, poco importa se le fonti diplomatiche dei giornali internazionali lo ritengono disposto a offrire una mano per la manutenzione (dei mezzi che tiene fermi) e la formazione dei soldati di Kyjiv.

Il ministro della difesa ucraino e il segretario della Nato, Stoltenberg
Foto: Michael Probst/AP Photo

Superare lo stallo potrebbe disinnescarne altri. Per esempio, la Spagna ha più di duecento Leopard. A Davos il ministro José Manuel Albares ha escluso di impegnarne una parte. Se Berlino cedesse, però, per Madrid sarebbe complicato restare ferma, o fuori dalla coalizione che persino una risoluzione del Parlamento europeo ha esortato Scholz a formare, proprio sui carri, «senza ulteriori ritardi». Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, lo ha ribadito alla plenaria di Strasburgo: «L’Ucraina ha bisogno di più equipaggiamento militare. Sono fermamente a favore di fornire i tank».

Nel frattempo, le altre potenze si muovono. Forse, anche con la speranza di dare un precedente all’immobilismo tedesco. La Francia valuta di mandare i suoi Leclerc; il Regno Unito ha già annunciato che darà quattordici Challenger 2, saranno i primi carri occidentali a servire le forze armate ucraine. La Danimarca seguirà con diciannove cannoni Caesar di fabbricazione francese, la Svezia di Ulf Kristersson con sistemi d’artiglieria Archer. Oltre al pressing internazionale, il cancelliere subisce quello domestico: gli azionisti dell’alleanza semaforo, Liberali e Verdi, vorrebbero una svolta. Mesi di polemiche (e attendismo) hanno portato alle dimissioni della ministra della Difesa, la socialdemocratica Christine Lambrecht.

La Spd ha una storica diffidenza per le armi, ha fallito pure l’Ostpolitik energetica di Angela Merkel che non ha addomesticato Putin. Nei sondaggi, ricompare una faglia Est-Ovest nella Repubblica riunificata. La parte di Paese uscita dal patto di Varsavia, oggi, è meno favorevole all’invio dei panzer. Se ascolta queste ingessature, cercando di farsi tirare dalla giacchetta per legittimare la partecipazione tedesca allo sforzo collettivo, Scholz non dimostra lo stesso coraggio di quando ha invertito decenni di non belligeranza con i cento miliardi stanziati per ammodernare l’arrugginita Bundeswehr.

Al di là della retorica delle dichiarazioni, il risultato di Ramstein non è purtroppo quello in cui sperava l’Ucraina. Gli Stati Uniti spediranno novanta veicoli corazzati Stryker (a otto ruote, impiegati per la prima volta in Iraq nel 2003) e hanno sponsorizzato la cinquantina di Bradley per trasportare truppe e armi. Finora, però, la Casa Bianca non ha incluso gli M1 Abrams. La ragione ufficiale, ha riferito la Bbc, è logistica: in Europa è più difficile ripararli e vanno con il carburante degli aerei (anche se la scheda tecnica dell’azienda che li produce ammette altri propellenti), mentre i Leopard sono alimentati con il più comune diesel.

«Sosterremo l’autodifesa ucraina fino a quando sarà necessario», ha detto Austin. Non ci sono segnali che la Russia si prepari alla pace, ha aggiunto ieri il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Anzi, si prepara a continuare sul lungo termine. A riprovarci in primavera. Bisogna aumentare l’aiuto a Kyjiv, quindi, non diminuirlo. Gli off the records di Ramstein sono ottimisti e per Pistorius è «sbagliata» la narrativa sull’ostruzionismo tedesco. Quindici nazioni hanno cercato di sbloccare lo stallo, ma la delegazione tedesca nega che ci saranno veti sulle esportazioni, almeno su quelle altrui.

È vero che la contraerea «salverà vite», come dichiara Austin, ma non è abbastanza. Potrebbe essere troppo poco, troppo tardi. Ogni giorno di esitazione è un giorno in meno alla prossima aggressione russa. Un giorno perso, a vantaggio del Cremlino.

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