«Anche a te e famiglia». La versione ucraina del refrain delle feste è diventato il simbolo di uno dei più grandi raid della guerra, in risposta al «buon anno» visto su uno dei droni lanciati (e intercettati dalla contraerea) dai russi la notte di Capodanno. La differenza è che il Cremlino mira sui quartieri civili, mentre Kyjiv centra obiettivi militari.
Il bombardamento di Makiivka, nella regione di Donetsk, ha ucciso o ferito centinaia di soldati nemici e ha fatto saltare un deposito di munizioni. Lo hanno permesso le armi fornite dagli alleati, probabilmente gli Himars americani.
Ha riconosciuto le perdite persino l’amministrazione fantoccio dell’oblast annesso illegalmente coi referendum farsa. La norma, tra gli invasori, è negare l’evidenza. Come da frasario, hanno parlato di «fortissimo colpo». Il ministero della Difesa russo ha però ammesso – di per sé, già un fatto più unico che raro – sessantatré vittime. Già così sarebbe uno dei più letali attacchi missilistici subiti dalle truppe della Federazione, ma l’esercito ucraino rivendica un bilancio diverso. Quattrocento morti e trecento feriti. Nei comunicati si irride l’abituale ritrosia, attribuendo (come Mosca ha fatto di solito, ma non stavolta) il botto alla mancata manutenzione del riscaldamento, o a una sigaretta fumata nel posto sbagliato.
I russi stanno esaurendo le scorte di munizioni, secondo l’Institute for the Study of War. L’intelligence britannica ritiene che non abbiano abbastanza proiettili di artiglieria per supportare nuove offensive. Hanno svuotato i magazzini in Bielorussia, ma non potranno proseguire a lungo il forcing del fronte a Bakhmut, in Donbas. Non a questi ritmi, almeno. Abbiamo sottostimato gli arsenali e, come ha notato Daniele Raineri su Repubblica, pure la loro capacità di rigenerazione. La produzione è addirittura aumentata durante il conflitto, ha ricostruito il Long War Journal, un missile ogni tre-quattro giorni. Il punto è che Vladimir Putin li ha sparati a una velocità superiore a quella a cui li fabbrica.
Insomma, il Cremlino è in rosso. Può permettersi di rispondere ad azioni come quella di Makiivka poche volte al mese. La prova che i comandi abbiano un problema, o scontino già una penuria, sta nella riduzione dei lanci. Per questo, Mosca si affida ai droni kamikaze iraniani, ne scaglia anche una quarantina alla volta. Hanno il vantaggio di costare molto meno della contraerea, che riesce a bloccarli quasi sempre. Il terrorismo ha purtroppo pagato, se l’operatore statale Ukrenergo ha confermato la percentuale sentita in autunno: l’ultimo giorno del 2022 non funzionava il quaranta per cento della rete elettrica del Paese.
È una guerra di logoramento: il nemico bombarda linee e centrali, a sfregio del diritto internazionale (il procuratore che guidò il caso contro un altro macellaio, il leader serbo Slobodan Milošević, ha invitato il tribunale dell’Aja a non temporeggiare e a incriminare Putin). Gli ucraini riparano il prima possibile, aspettano pezzi di ricambio e, soprattutto, la primavera. Poi ci siamo noi. L’Occidente ha deluso le aspettative sulla «no fly zone», ma il materiale che ha inviato è decisivo per proteggere i cieli. In questi giorni, a Kyjiv i sistemi Nasams hanno salvato vite, disintegrando i droni iraniani come fuochi d’artificio.
Ma anche le nostre riserve non sono eterne. Gli Stati Uniti hanno consumato un terzo del loro stock di lanciarazzi Javelin e un quarto dei terra-aria Stinger. Rispetto al passato, al Novecento della Guerra fredda, c’è una novità storica. Ne ha scritto su Bloomberg Niall Ferguson, che un anno fa ha predetto l’invasione dell’Ucraina. Citando Roosevelt, per Ferguson oggi non esiste un «arsenale della democrazia», perché la potenza industriale non è più asimmetrica: «Stavolta sono le autocrazie ad avere un arsenale».
Nel 2023 il mondo libero deve continuare a fare la sua parte contro l’asse Mosca-Teheran, non ingessarsi in passatismi strategici che favorirebbero una saldatura antioccidentale tra Russia e Cina. Secondo l’autore, una ricetta da Guerra fredda di mera competizione economica, come il cordone sanitario che ha strangolato l’Unione sovietica, non può funzionare con la Cina. Ferguson teme un terzo conflitto mondiale.
Nelle manovre della Russia del Duemila rintraccia conflitti di scala ridotta simili a quelli che hanno preceduto le due tragedie del secolo breve. Gli Stati Uniti del 2022, paragonati all’impero britannico nella sua fase calante, devono cambiare strategia per rinnovare il loro potenziale di deterrenza. La produzione americana di missili, aerei e satelliti s’è dimezzata; quella annuale di munizioni d’artiglieria basterebbe per sole due settimane di combattimenti.
Al tempo di «conflitti algoritmici», come li chiama lo storico, non è sufficiente tenere in piedi le alleanze esistenti e rallentare i progressi tecnologici della controparte. Anche perché Pechino ha già raggiunto un grado di sviluppo tecnologico inimmaginabile per l’Urss: è il mondo libero a doversi sforzare per tenere il suo passo, non più il contrario. I disastri bellici stanno riportando la Russia agli anni Novanta, le sanzioni l’hanno resa più dipendente dalla Cina, a cui però vende sottoprezzo.
Sorvoliamo sulle Nazioni unite, una gigafactory di buoni propositi che non tocca palla, paralizzata dai veti russi e dall’influenza che il Cremlino si è comprato in Africa e non solo lì. Washington non è riuscita a bloccare la Russia nell’escalation del 2022. L’ultima trincea passa da due fronti. Le opinioni pubbliche tendono a stufarsi delle guerre prolungate e stavolta non deve avvenire. Perché la vittoria arriverà prima, ci auguriamo tutti. In caso contrario, va tenuta accesa la causa di chi combatte per noi, anche armandolo, altrimenti il sacrificio degli ucraini sarà vano. La seconda è impedire che Taiwan sia la prossima.
L’Occidente dipende dalla Cina per le terre rare come l’Europa pre-24 febbraio dal gas russo. Pechino controlla oltre il settanta per cento dell’estrazione e della lavorazione di minerali come nichel, cobalto, litio e rame. Sono essenziali per pannelli solari e microchip, per i componenti dei nostri smartphone e le batterie delle auto elettriche. Il regime comunista possiede novecento settanta miliardi di dollari in buoni del tesoro americano, secondo creditore dopo il Giappone. Più di quella finanziaria, dovrebbe preoccuparci l’instabilità geopolitica.
Putin e Xi Jinping si sono promessi più collaborazione. Le follie dello “zar”, a cui Xi ha finora negato forniture militari, rientrano nello stesso «ordine mondiale» che i due vorrebbero riscrivere. Come i talebani nel 2021, la bellicosità dell’Iran non dispiace alla Cina in chiave anti-occidentale. Mosca è legata, in modo diverso, da due separate direttrici verso Teheran e Pechino. Le democrazie liberali devono evitare che un terzo asse chiuda un triangolo votato al caos, all’instabilità, o comunque a equilibri cimiteriali dove i diritti non sono prioritari né il fondamento della convivenza sul pianeta.
Secondo Ferguson, che parafrasa il memoriale di Remarque, non c’è niente di buono sul fronte occidentale. «Grande è la confusione sotto il cielo», recita un aforisma abusato. La situazione per gli autocrati, però, non è eccellente. Putin perde la guerra, ribolle una rivoluzione contro gli ayatollah, la Cina deve disinnescare una nuova bomba pandemica. Nel 2022 abbiamo imparato che per combattere i tiranni dobbiamo smettere di mitizzarli. Ci siamo sorpresi della forza dell’Occidente quando smette di arretrare sui suoi valori. Farlo dopo aver appreso le aberrazioni di Bucha sarebbe imperdonabile.
Nel discorso di fine anno, il più lungo della sua era, Putin ha millantato che la verità storica e morale è con lui. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha invece ricordato la scelta del 24 febbraio: non la bandiera bianca della resa, ma quella blu e gialla della resistenza. «Milioni di noi», ha detto, e in quel noi c’era tutto il mondo libero, che dopo decenni di arrendevolezza deve far proprio il coraggio ucraino, non lasciare solo quel popolo. La guerra può finire solo con una vittoria di Kyjiv, con il ritiro dei russi. È la sola pace possibile, perché sarebbe l’unica pace duratura.