Un anno dopo la barbara aggressione russa all’Ucraina, il mondo libero si interroga su come evitare agli ucraini un altro anno di sofferenze causate dai crimini russi e di ritrovarsi di nuovo, nel febbraio 2024, a chiacchierare di sanzioni e di aiuti alla resistenza di Kyjiv.
Un anno dopo l’invasione su larga scala dell’esercito di Mosca contro un Paese libero e democratico nel cuore dell’Europa sappiamo che la guerra è stata scatenata da Vladimir Putin in forza di un’ideologia suprematista e revanscista che, assieme a un apocalittico culto della morte, permea implacabilmente la società russa.
Sappiamo anche che Putin ha inviato le squadracce russe a Kyjiv per destituire il governo democratico di Volodymyr Zelensky proprio perché nel 2014, quando ha invaso e annesso la Crimea ucraina, il mondo intero si è girato dall’altra parte lasciandogli eseguire la sua violenta strategia imperialista.
A febbraio 2022, Putin ha creduto di poter ripetere lo stesso schema di guerra, uno schema peraltro radicato nella storia della Russia zarista e sovietica, prima ancora che putiniana. E non aveva torto, il criminale del Cremlino, visto che la prima reazione occidentale è stata quella di accettare l’ineluttabilità della capitolazione degli ucraini, mentre gli americani hanno subito offerto a Zelensky una via di fuga da Kyjiv in modo da salvargli la vita.
E invece Zelensky ha detto di no, «mi servono armi, non un passaggio», ed è stato in quel preciso momento che il comico populista, responsabile tra le altre cose di aver sottovalutato le intenzioni di Putin fino al giorno dell’attacco neanche avesse letto Limes, si è trasformato nel Churchill degli ucraini, guidandoli nella resistenza e nel contrattacco e mobilitando l’Europa e gli Stati Uniti nella grande operazione di salvataggio dell’Ucraina.
Il mondo occidentale ha fornito aiuti di ogni tipo, con un investimento intorno ai 150 miliardi di euro, e ha offerto una sincera e sentita solidarietà politica al popolo ucraino.
Il merito è di Joe Biden e di gran parte dei Paesi Nato, a cominciare dall’Italia di Mario Draghi e ora di Giorgia Meloni, ma soprattutto delle istituzioni europee guidate da Ursula von der Leyen e Roberta Metsola, con un ruolo importante anche dell’italiana Pina Picierno, e delle leadership dei Paesi baltici, da Sanna Marin in Finlandia, a Kaja Kallas in Estonia a Magdalena Andersson in Svezia.
Con l’aiuto di Biden e delle leader europee, l’Ucraina ha resistito e la Russia ha fallito il suo obiettivo militare e strategico.
Mosca aveva investito molto sull’insipienza europea, rendendo l’Unione europea dipendente dal suo gas e finanziandone il caos politico dalla Brexit in poi. Quel progetto di ammorbidimento dell’Europa e di ricostruzione dell’impero russo è fallito grazie alla resistenza ucraina che nel combattere per la propria indipendenza ha svegliato l’Occidente dal torpore e dall’illusione che il mondo fosse diventato piatto.
Malgrado il fallimento del disegno di Putin, la guerra però non è affatto finita e anzi le prossime settimane rischiano di essere ancora più dure. L’unico che ha il potere di fermare la guerra, ovvero il criminale di Mosca, non ha nessuna intenzione di farlo. Putin spera sempre che prima o poi l’Occidente si possa stancare, magari pensa che nel 2024 Trump o qualche altro fanatico possa riconquistare la Casa Bianca oppure crede davvero alle pagliacciate che si sentono su La7 e Retequattro. Intanto lavora per costruire l’asse del male con Cina e Iran e altre canaglie.
Gli Stati Uniti e l’Europa fin qui hanno centellinato gli aiuti militari all’Ucraina con la comprensibile cautela di chi ha sperato in una soluzione pacifica dell’aggressione, ma di fronte ai crescenti crimini di guerra del Cremlino contro la popolazione civile sono stati costretti a fornire prima i razzi terra-aria Javelin, poi i sistemi lancia missili Himars, infine la protezione dei Patriot e i carri armati (che però non sono ancora arrivati a destinazione).
Si tratta di armi sofisticate prevalentemente di uso difensivo, fornite agli ucraini per respingere gli attacchi indiscriminati dei russi, ma non sono ancora sufficienti a fermare le stragi perché Mosca continua a cercare la soluzione finale con ripetuti attacchi missilistici e mandando a morire ai confini dell’Ucraina le raccogliticce ma apparentemente infinite truppe russe arruolate con la forza nelle retrovie dell’impero.
Un anno dopo è arrivato il momento di suturare le ferite ucraine, come hanno spiegato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco gli attuali e i precedenti vertici militari della Nato, e ieri finanche le solitamente caute pagine degli editoriali del New York Times.
La svolta necessaria passa per i caccia F-16, per i droni Gray Eagle e per i missili a lunga gittata Atacms, fondamentali per liberare la Crimea dall’invasore russo.
Prima si deciderà di liberare la Crimea, più vite ucraine si salveranno e prima finirà la guerra. La via più veloce per fermare la carneficina è la vittoria dell’Ucraina, un Paese che per oltre un secolo la Russia ha provato ad annichilire politicamente e culturalmente, ma che non ha mai ceduto. Da quando, alla caduta dell’Unione Sovietica, ha riconquistato l’indipendenza, l’Ucraina ha cacciato democraticamente i leader fantocci imposti da Mosca e ha dimostrato di essere una nazione democratica e non autoritaria, europea e non russa.
Il mondo libero fin qui ha generosamente aiutato l’Ucraina a resistere, ma ora dovrà aiutarla a cacciare i russi anche dai territori occupati illegalmente nel 2014, anticipando le manovre militari del Cremlino per ricominciare da capo.
La guerra può finire soltanto con un’Ucraina più forte di prima e con il mondo libero che a quel punto avrà dimostrato di avere la determinazione e la capacità di fermare i criminali agenti del caos.
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