Ponte per la pacePerché l’Ucraina dovrebbe (e può) liberare la Crimea

Le basi nella penisola permettono ai russi di minacciare la sicurezza globale, compromettendo le rotte sul Mar Nero, e da lì possono partire in futuro altre invasioni. Spetta a Kyjiv, che oggi ha la capacità militare per riconquistarla, stabilire le condizioni della vittoria

Il presidente russo Putin visita il ponte della Crimea colpito dagli ucraini
Foto: Mikhail Metzel, Sputnik via AP

L’Occidente ha condannato, ma di fatto tollerato l’annessione russa della Crimea. Era il 2014, un’operazione militare illegale che era il prequel di quella «speciale» del 24 febbraio 2022. Nove anni dopo, con la stessa miopia di allora, alcuni alleati di Kyjiv si ostinano a escludere la penisola dal perimetro di negoziati anche solo virtuali, nello zelo di non indispettire Vladimir Putin. L’Ucraina ha il potenziale per liberarla. La guerra finirà così, ha promesso il presidente Volodymyr Zelensky, e cioè dov’era cominciata. Finché Sebastopoli sarà occupata dal nemico, potrà essere l’avamposto per altre invasioni: una minaccia alla sicurezza globale.

L’esercito ucraino ha riconquistato metà del territorio sottratto dagli aggressori. Al Nord, li ha ricacciati oltreconfine. Prima dell’inverno, la controffensiva è avanzata anche sugli altri fronti. La tenuta russa a Meridione, secondo alcuni analisti, è dipesa anche dalle basi logistiche istallate in Crimea dopo il 2014. In una fase dove l’artiglieria a lungo raggio può fare la differenza, mentre i russi a corto di munizioni sparano a un terzo del volume del passato, oggi Kyjiv avrebbe le capacità belliche per riprendersi la regione. Ne è convinta pure l’amministrazione americana, che lo ha confermato al Congresso.

Washington è cauta. Traccia lì una di quelle «linee rosse» su cui si insiste in giornalese. Nessuno vuole un’escalation, ma prima di codificare cosa sia una «provocazione a Putin», dovremmo rigettare i suoi schemi di revisionismo storico. È vero che sulla provincia ha investito miliardi di rubli – 227 (3,7 miliardi di dollari) solo per i diciannove chilometri del ponte Kerch riaperto parzialmente al traffico dopo l’esplosione di ottobre – e una parte considerevole del suo capitale politico. Al conflitto in generale voleva legare un’imprecisata eredità di grandezza, per rivivere l’impennata nei consensi del 2014, perché da secoli Mosca esternalizza a mano armata le insicurezze domestiche.

Se non ci è riuscito, è merito degli ucraini. Va però archiviata la retorica del Cremlino: una deteriore visione colonialista che crede la Crimea russa in virtù della lingua. Oppure il trito «errore» del 1954, quando la penisola venne scorporata dall’Unione sovietica e assegnata a Kyjiv. Era imperialista anche la ricorrenza, trecento anni dal trattato di federazione con Mosca, che non ha mai accettato l’indipendenza di un «popolo fratello» (si ostina a chiamarlo così pure sotto le bombe) perché non ha saputo seguirne l’esempio democratico. Quando è crollata l’Urss, la Russia è rimasta prigioniera delle rovine ideologiche.

Nel referendum del 1991, l’Ucraina ha scelto l’indipendenza repubblicana a furor di popolo. Anche Sebastopoli, erede di uno statuto speciale, ha votato convintamente quel futuro, perché lo preferiva all’oscurantismo corrotto del Cremlino. Aggrapparsi alle percentuali dell’astensione dell’epoca, o al malcontento negli anni di declino economico, è ripetere la propaganda. No, la penisola non è «Russia da sempre», ma solo dopo l’invasione zarista del 1783. Ha visto più di un impero: i greci, i mongoli gli ottomani e infine l’aristocrazia di Caterina II.

Sotto Stalin, i tatari di Crimea sono stati deportati e sterminati per la falsa accusa d’aver collaborato con i nazisti. Non sorprende trovarli oggi a infoltire le brigate internazionali, a fianco di bielorussi e ceceni, che si battono contro l’oppressione di Mosca, come i loro avi prima di loro, perché sanno sulla loro pelle cosa significa. «Una onesta valutazione della Storia chiarisce che la Crimea dovrebbe essere parte dell’Ucraina, non della Russia», ha concluso un’analisi della rivista Foreign Affairs dove si esplora l’ipotesi della liberazione della penisola.

Era impensabile quando i nostri media credevano alle palle dei tiranni e mitizzavano la loro potenza. Chi ritiene la Crimea un tabù rispolvera l’arrendevolezza che ha permesso l’avanzata delle autocrazie. Sebastopoli è la «chiave della guerra», ha scritto il Washington Post. Kyjiv sta già lavorando a un piano per reintegrarla che include l’espulsione dei settecentomila russi, trasferitisi lì dopo il 2014. Prima del conflitto, nel 2021, il governo ha fondato un summit annuale sulle condizioni della regione.

Non spetta a noi, ma agli ucraini scrivere le condizioni di un negoziato e la linea di Zelensky è semplice: «Non dobbiamo trattare per qualcosa che è già nostro».

Il problema è che la controparte non sembra intenzionata a restituire il maltolto. I sondaggi condotti dentro un regime totalitario vanno letti con cautela, gli intervistati potrebbero aver paura di fornire risposte difformi dalla narrativa ufficiale. Un’indagine del Levada Center russo, insieme al Chicago Council on Global Affairs, a novembre ha rilevato come la maggior parte del campione fosse a favore di una trattativa con Kyjiv (53 per cento, 62 nel caso di una tregua), ma nettamente contraria (78 per cento) a riconsegnare la penisola, o il Donbas occupato (66 per cento).

Quelle imperialiste non sono mire di Putin, non solo sue almeno. Sono condivise con la base elettorale, con una parte non trascurabile della società. L’indagine riscontra infine un calo, dal 43 al 27 per cento, tra chi definisce «difensiva» la guerra d’aggressione. Insomma: i russi, almeno quelli che partecipano ai sondaggi, riconoscono la natura offensiva dell’«operazione militare» in Ucraina, sono possibilisti su una mediazione diplomatica, ma non ripudiano le annessioni illegali del Cremlino. Per questo è lecito avere dubbi su quali “concessioni” esigerebbero per sedersi a un negoziato.

Gli ucraini respingono qualsiasi compromesso sul loro territorio. Secondo una rilevazione demoscopica del Kyjiv Institute of Sociology, l’87 per cento di loro ritiene inaccettabile cedere terreno al nemico, anche se ciò volesse dire prolungare il conflitto. A fine settembre, Putin ha fagocitato con i finti referendum province – Donetsk, Kherson, Luhansk e Zaporizhzhia – che non controlla. Sarebbe surreale esaudire le pretese di chi sta perdendo la guerra, sull’altare di una pacificazione a tutti i costi equivalente a una resa, scavalcando i diretti interessati, che invece la stanno vincendo.

La penisola è il trampolino per le armate di Putin. Recidere i collegamenti alla terraferma – quindi bloccare il ponte di Kerch – depotenzierebbe il conflitto nel Sud. Dalle basi aeronavali della flotta partono i raid sulle infrastrutture e i quartieri civili del Paese. Come scrive Foreign Affairs, quella presa permette alla Russia di minacciare tutto il mondo: è grazie al dominio sul Mar Nero e quello d’Azov che ha potuto strangolare i corridoi del grano (su cui passavano anche materie prime e altre derrate) e affamare nazioni già sofferenti.

Senza dimenticare il piatto forte della casa: i ricatti energetici. Nel Mar Nero ci sono giacimenti di gas. Prima della calata degli «omini verdi», Kyjiv contava di estrarre con la Exxon il metano; il progetto valeva sei miliardi di dollari. La mappa energetica dell’Europa potrebbe essere diversa, i suoi inverni più sicuri. Quel bacino è invece nelle mani di Mosca, che pure nel carnaio di Bakhmut non rinuncia a depredare, se la Wagner di Prigozhin vuole sfruttare le miniere di sale e gesso.

Sulla Crimea, l’Occidente ha l’occasione di riparare gli errori del 2014. Di non replicare le esitazioni. Quel fallimento ha incoraggiato Putin a invadere l’Ucraina intera. Non dobbiamo lasciargli pensare di non avere le idee chiare, o una posizione a riguardo. Se la Crimea non tornerà all’Ucraina, se Mosca la facesse franca con l’annessione, consentiremmo un pericoloso precedente storico. Legittimeremmo le guerre di conquista. Restituire la penisola a Kyjiv – proprio come armarla – è un investimento in sicurezza globale, nella prevenzione di altri conflitti.

Un conto è la cautela, un altro negare a priori lo scenario di una futura liberazione della regione perché non piace a uno psicopatico con un arsenale nucleare. Vorrebbe dire aver introiettato la sua visione, un nuovo “equilibrio” planetario in cui Mosca, Cina e Iran spadroneggiano di fronte alla ritirata delle democrazie. Gli ucraini hanno dimostrato d’essere disposti a morire per l’Europa e per il mondo libero. Il minimo che possiamo fare è ascoltarli, e aiutarli con ogni mezzo a vincere. Alle loro condizioni.

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