Integrazione monetariaPerché Argentina e Brasile stanno pensando di creare una valuta comune

Brasilia e Buenos Aires potrebbero creare il Sur per rafforzare le loro economie, ma soprattutto per sganciarsi dal dollaro negli scambi commerciali bilaterali senza dover rinunciare alle valute nazionali

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«Il Brasile è tornato», ripete a tutti Lula da Silva durante il suo tour nella zona del Rio de La Plata, tra Argentina e Uruguay. Rientrato nel Selac, l’organizzazione che riunisce i trentatré Paesi dell’America Latina e i Caraibi, dopo l’uscita voluta da Bolsonaro il presidente brasiliano si presenta davanti ai suoi omologhi come il salvatore della più grande democrazia latinoamericana, essendo sopravvissuto all’assalto ai palazzi delle istituzioni a Brasilia, lo scorso 8 gennaio.

Lula vanta sempre buoni contatti con Buenos Aires e il presidente argentino Alberto Fernández, tanto che la corrispondenza d’amorosi sensi dei due leader li ha portati al lusso di sognare l’«euro sudamericano». I due presidenti, che condividono la comune adesione alla famiglia progressista latinoamericana, oltre che il sostegno ai progetti di integrazione regionale – la Patria grande – hanno annunciato sabato sul settimanale argentino Perfil il progetto di un valuta comune ai due Paesi, per favorire l’integrazione politica e fronteggiare l’egemonia economica straniera.

Al di là della retorica e della megalomania, cosa significhi tutto ciò per le economie dei due Paesi è dubbio, perché se vale ancora il detto extraordinary claims require extraordinary evidence, i due presidenti hanno tanto da spiegare a chi gli chiede come tutto questo sia possibile.

In realtà, tra la retorica e la realtà ci passano un mare di parole. Come ha spiegato a Linkiesta Antonella Mori, a capo della divisione America Latina dell’Ispi, «non bisogna fare l’errore di pensare che i due abbiano in mente una moneta unica, tipo l’euro. In realtà non sono questi i programmi dei governi argentino e brasiliano, anche perché una cosa del genere non sarebbe per niente realizzabile. Ciò che stanno proponendo è trovare un modo per sganciarsi dalla necessità di utilizzare i dollari negli scambi commerciali bilaterali senza dover rinunciare alle valute nazionali, un problema molto più concreto».

Infatti, il real brasiliano e il peso argentino non sono mai stati messi in discussione, si valuta invece l’eventualità di un’ulteriore moneta comune a entrambi i Paesi per le sole transazioni finanziarie, per le importazioni e le esportazioni. Moneta che potrebbe chiamarsi Sur, (sud in spagnolo) un nome che è stato spesso evocato dal presidente brasiliano Lula nell’ultima campagna elettorale.

Il problema economico, come per altro hanno spiegato molti giornali, è certamente legato al rialzo dei tassi decisi dalla Fed, che ha portato all’aumento del costo della moneta statunitense, mettendo in difficoltà le economie sudamericane. Questo perché, essendo il dollaro una moneta stabile, i prezzi per gli scambi internazionali in tutto il continente latino vengono definiti attraverso questa valuta.

Negli ultimi anni, poi, l’Argentina ha acuito la propria carenza di dollari perché non riesce a prenderli a prestito e perché ha un’enorme debito da ripagare: deve ancora quaranta miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale per il salvataggio dal fallimento nel 2018. Questo ha portato le imprese argentine a diminuire le importazioni dal Brasile, che è il suo principale partner commerciale.

Perciò, se da una parte il Brasile non vuole perdere l’Argentina come partner commerciale (il terzo dopo Cina e Stati Uniti), d’altra parte gli importatori argentini non hanno una valuta abbastanza forte per comprare in Brasile.

Un’alternativa per gli argentini sarebbe utilizzare la valuta nazionale, ma le imprese brasiliane non sarebbero disposte ad accettare pagamenti in pesos, visto che con un’inflazione argentina frequentemente molto elevata (al momento superiore al novanta per cento) il peso si continua a deprezzare. «Al di là di questo momento congiunturale – spiega Mori – anche in passato le aziende dei due Paesi non hanno voluto utilizzare le valute nazionali. Infatti, già nel 2008 le due banche centrali avevano firmato un accordo per favorire un Sistema di Pagamenti in Moneta Locale nel commercio bilaterale. Anche nel 2008 la principale spinta per fare questo accordo era stata la mancanza di dollari in Argentina, che a causa del default sul debito estero del 2001 non poteva accedere ai mercati dei capitali internazionali». Un accordo che però non è stato quasi mai utilizzato, proprio a causa dell’eccessiva volatilità della divisa argentina. Insomma, un problema serio di difficile risoluzione, ma capitale per il futuro di entrambe le economie che puntano al rilancio.

Se dal punto di vista macroeconomico le differenze con l’euro sono tantissime, l’ispirazione è la stessa, anche perché questo progetto mira a risolvere lo stesso problema, ovvero la volatilità della moneta che inibisce gli scambi tra Paesi vicini. Per certi aspetti il progetto quasi utopico di Lula e Fernández ricorda l’antenato dell’euro, l’Ecu, che precedette e preparò la moneta unica.

Dalla fine della convertibilità del dollaro in oro e poi del sistema a cambi fissi a livello internazionale (1973), la volatilità dei tassi di cambio è un ostacolo al commercio internazionale. «La storia dell’integrazione europea mette in luce l’importanza di questo problema: dopo la fine dei cambi fissi a livello internazionale i Paesi europei hanno cercato di garantire minore volatilità dei cambi prima con il “serpente monetario” (1972), poi con il Sistema Monetario Europeo (1978) e infine con l’Unione Monetaria Europea e l’adozione dell’euro nel 1999», ricorda Mori. Lungo la strada che sarebbe dovuta sfociare nell’unione monetaria, uno scontro, raramente reso esplicito, opponeva negli establishment politico-economici europei i monetaristi agli economisti.

La prima categoria, incarnata dai leader politici più europeisti, poneva l’accento sul fatto che l’europeizzazione della moneta sarebbe stata la scintilla che avrebbe prodotto l’unione politica, o almeno determinato le condizioni necessarie a generarla.

Per gli economisti, invece occorreva prima rendere omogenee le economie e le culture monetarie della Comunità, e solo poi battere la moneta unica, la quale sarebbe quindi stata espressione finale dell’integrazione economica e politica.

È la moneta comune a indurre l’integrazione politica o viceversa? Per Lula la strategia è chiara: l’integrazione commerciale del Sud America passa attraverso una riorganizzazione della moneta, ma c’è il rischio che si faccia il passo più lungo della gamba. «Non possiamo sapere come sarà l’integrazione monetaria tra Argentina e Brasile fra trent’anni – conclude Mori – ma data l’attuale situazione macroeconomica dell’Argentina, è poco probabile che a breve i governi riusciranno a trovare un sistema per evitare l’utilizzo di valute terze forti e convertibili, come il dollaro o l’euro».