Chris DoroszL’artista con la sindrome di Tourette che ci insegna a riscoprire il valore della lentezza

Le sue opere sono frutto di una sovrapposizione continua di molti dipinti l’uno sull’altro, tali da farli assomigliare a sculture. Nessuna fretta, nessuna indulgenza nei confronti delle nuove tecnologie. Anzi, il ritorno agli oggetti, al corpo, alla materia rappresenta la vera cifra della contemporaneità

courtesy of Chris Dorosz

Chris Dorosz, classe 1972, di origine canadese è considerato uno tra i più interessanti artisti della scena contemporanea statunitense. La sua pittura tridimensionale, a cavallo tra scultura e fotografia, è lo strumento con cui da trent’anni indaga e racconta l’individualità e la solitudine dell’essere umano nella società contemporanea. Alla base della sua ricerca artistica c’è un forte senso di controllo, che gli deriva dalla complessa convivenza con la sindrome di Tourette, che ha finito per plasmare lo stesso modo di intendere la realtà e l’arte.

Insignito della prestigiosa borsa di studio Joseph Beuys Memorial, nel 2003 vince il Canadian Art and Royal Bank of Canada New Painting Competition. Gli sono state dedicate mostre personali soprattutto nel Nord America: dal San Jose Institute of Contemporary Art, al California College of Integral Studies e al Canadian Clay and Glass Museum. Ancora poco noto in Italia, l’abbiamo voluto intervistare per approfondire la sua ricerca e il suo linguaggio, carico di spunti su cui riflettere, anche al di là dell’ambito artistico.

courtesy of Chris Dorosz

Qual è il tuo credo artistico?
Ritengo sia quanto mai fondamentale riscoprire il valore della lentezza: nella mia quotidianità artistica osservo attentamente e non lavoro mai in modo frettoloso. Sono un artista che vive nella contemporaneità digitale, con un piede ancora saldo e ancorato al digitale. Faccio oggetti e credo che l’arte debba essere vissuta.  Questa è la mia filosofia dell’arte.

Ci spieghi meglio la tua filosofia della lentezza?
Il nostro tempo è solo apparentemente frenetico, ma in realtà tutto è oggi più che mai pervaso da un generale senso di blocco. Le attuali guerre in tutto il mondo e le sempre più forti tensioni socio-culturali, non solo negli Stati Uniti, portano le persone alla continua ricerca di una qualche forma di spiritualità nella loro vita, un qualcosa che sia in grado di dare loro un senso di appartenenza e uno scopo più elevato per continuare a vivere. Bisogna distaccarsi da tale meccanismo e accettare e abbracciare la lentezza, il pensare prima di agire e agire solo perché si deve e vuole farlo.

courtesy of Chris Dorosz

I tuoi lavori non sono mai pura scultura bidimensionale: spesso trasformi gli stessi colori in scultura.
Ho sempre considerato i miei dipinti come sculture. Negli anni sono riuscito a portare a termine questa mia personale evoluzione: sono passato dalla pittura 2D a un’interpretazione scultorea 3D nella pittura, a un’espansione tridimensionale della pittura. I miei primi lavori possono essere considerati come il risultato della sovrapposizione di molti dipinti uno sopra l’altro. Il lavoro finale era come una “storia” unica in cui tutti gli strati concorrono a una comprensione visiva tridimensionale.  Questa pratica è stato l’inizio di un ripensamento della pittura nello spazio: The Painted Room (2008) è stato un lavoro fondamentale di passaggio in cui ho rappresentato (in scala esatta 1:1) il salotto dei miei genitori suddiviso da una foresta di cavi trasparenti verticali a cui ho fatto aggrappare macchie di colore.

La pittura è perciò in crisi e senza futuro?
No, anzi! Dovremmo tutti prenderci una pausa dalla virtualità e considerare ciò che stiamo perdendo in termini di interazione fisica tra persone e anche con gli oggetti che ci circondano. Il nostro bisogno innato di materia e concretezza credo però garantirà il preservare del saper fare. In fondo penso che ci sarà una rinascita dell’aura degli oggetti. Tutto passa, ma la pittura sarà ancora viva.  Fin quando ci sarà della terra bagnata e un bastone, ci sarà qualcuno che continuerà a dipingere per dichiarare «Io ci sono stato», «Io ero qui».

courtesy of Chris Dorosz

I tuoi ritratti sembrano quasi liquefatti e sembra esserci un forte riferimento e condivisione con la scuola inglese del XX secolo: Bacon, Freud e Auerbach.
Sono sempre mosso dal desiderio di aumentare la materialità del mio lavoro. Nel caso dei ritratti, la pittura diventa qualcos’altro… carne? limo? Nonostante un cenno ai canoni della ritrattistica, questi “abitanti” da me ritratti trascendono le rispettive somiglianze e rivelano tutta la mutevolezza e caducità umana. Sento una forte connessione con il lavoro di Frank Auerbach: amo l’applicazione viscerale della pittura sulla tela e la titolazione paradossale ed enigmatica delle sue opere.

Controllo e spontaneità, frammento e visione di insieme, sono solo alcuni tra i tanti aspetti antitetici che riescono a coesistere nel tuo lavoro.
La mia pratica si basa su una reale compulsione per la mappatura della realtà, molto più complessa di come la vediamo e intendiamo. Uso la parola compulsione non a caso, ma perché ho la sindrome di Tourette: è sempre presente in me questa “forza oscura”. I miei tic mi portato sempre a dover rivedere e ricostruire mentalmente tutti gli oggetti che mi circondano. Nel corso del tempo ho imparato a governare questa forma mentis e a trasformarla, integrarla nel mio agire artistico, che finisce per aver un qualcosa di profondamente matematico: traduco tutte le informazioni della materia in fori irregolarmente perforati o segni fatti di vernice. Un nuovo ordine.  Attraverso questo processo di mappatura e riduzione, ciò che risulta è infine una rappresentazione archetipica della forma nello spazio, o meglio, un modello originale segnato dallo spazio puro. Questo lento e inesorabile passaggio dalla realtà contingente all’archetipo è per me una forma di indagine spirituale, un modo per cominciare a comprendere la vera natura della realtà.

courtesy of Chris Dorosz