Sembrava quasi esserci riuscita, la Cina. Mostrarsi disponibile a compiere uno sforzo in più per ottenere il raggiungimento della pace in Ucraina, in cambio del mantenimento e anzi rilancio della cooperazione commerciale e diplomatica. Con l’effetto collaterale, positivo nella prospettiva di Pechino, di presentarsi come potenza responsabile e garante della stabilità. Al contrario degli Stati Uniti, dipinti come agente d’instabilità che persegue il proprio interesse anche a danno dei partner europei. Una retorica che funziona ad alcune latitudini e che anche nel Vecchio Continente sembrava che potesse ricevere licenza di circolazione, a patto di restare implicita sul fronte delle accuse a Washington.
Sembrava quasi esserci riuscita, la Cina. Il tour europeo di Wang Yi, promosso lo scorso ottobre da ministro degli Esteri a direttore dell’Ufficio della Commissione centrale degli Affari esteri del Partito comunista (in soldoni, il gran ciambellano della diplomazia cinese), era cominciato in modo più che positivo dalla Francia. Qui, Wang è stato ricevuto dal presidente Emmanuel Macron, considerato il vero interlocutore europeo dai media cinesi e fautore del coinvolgimento di Pechino nell’architettura diplomatica europea allo scopo d’impedire un suo ripiegamento totale su Mosca. Al termine del colloquio, l’ufficio del presidente francese ha dichiarato che Francia e Cina hanno concordato di «contribuire alla pace in Ucraina».
Sembra quasi esserci riuscita, la Cina. Anche nel passaggio in Italia, che qualche mese fa il Partito comunista temeva di dover quasi dare per persa. Durante la campagna elettorale della scorsa estate, Giorgia Meloni aveva mandato segnali decisi, affermando di non voler rinnovare l’accordo Belt and Road, che scade nel 2024.
Inoltre, ha ripetutamente collegato la guerra in Ucraina a una possibile azione militare cinese su Taiwan e ha espresso l’opinione che il mondo stia affrontando una battaglia tra democrazia e autocrazia. Dando ulteriori inequivocabili sostegni su Taipei e sul Tibet, prefigurando una postura dura nei confronti della Repubblica Popolare. Molto è cambiato una volta dopo l’ingresso a Palazzo Chigi e, soprattutto, il proficuo bilaterale con Xi Jinping a margine del G20 di Bali.
Il desiderio di mantenere o espandere i legami commerciali sembra aver suggerito una maggiore cautela sulle questioni più spinose legate alla Repubblica Popolare. Tanto che Wang ha garantito al ministro degli Esteri Antonio Tajani un aumento delle importazioni di prodotti ad alta qualità dell’Italia. Prima ancora della conferma della presenza italiana (unica del G7) nella Via della Seta, Wang punta a normalizzare i rapporti col governo Meloni, con la presidente del Consiglio che potrebbe presto recarsi in visita a Pechino nonostante la linea ostile nei confronti della Cina di Forza Italia e Lega (costrette a mostrare i muscoli su Xi visti i dubbi sui rapporti passati e futuri con Vladimir Putin).
Sembrava quasi esserci riuscita, la Cina. Anche alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera, dove Wang ha anticipato la pubblicazione di un documento contenente una cosiddetta proposta di pace cinese sull’Ucraina. Musica per le orecchie dell’Europa, nonostante appare chiaro dalle prime indiscrezioni che il documento si limiterà di fatto a reiterare il punto di vista sulla guerra già espresso diverse volte da Pechino: rispetto della sovranità e integrità territoriale, considerazione delle legittime preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi, niente sanzioni né armi nucleari, richiamo ai principi della Carta delle Nazioni Unite.
Con qualche post scriptum che diventa implicito o esplicito a seconda della convenienza e che i governi europei sembrano spesso ignorare. Se sull’integrità territoriale ci si riferisce all’Ucraina, le preoccupazioni di sicurezza “legittime” sono quelle della Russia, per la Cina ignorate e vilipese da Stati Uniti e Nato. Così come la minaccia dell’utilizzo delle armi nucleari aumenterebbe anche a causa delle azioni di Washington, che getta benzina sul fuoco.
Sembrava quasi esserci riuscita, la Cina, a far credere che l’ultima tappa del tour a Mosca potesse simboleggiare la volontà di esercitare qualche pressione sulla Russia dopo aver raccolto le preoccupazioni dei governi europei. Nonostante la visita serva soprattutto a preparare il prossimo arrivo a Mosca di Xi Jinping, non ancora confermato ma che sarebbe previsto in primavera. E nonostante dal 17 al 27 febbraio si svolgono delle esercitazioni navali congiunte tra le marine di Cina e Russia al largo del Sudafrica.
Alla fine, però, la Cina non è riuscita a ottenere tutti i suoi obiettivi. No, perché la tensione con gli Stati Uniti rischia di compromettere gli sforzi elargiti per migliorare i rapporti con l’Unione europea. A Monaco di Baviera è andato in scena un breve e spigoloso bilaterale tra Wang e il segretario di Stato Antony Blinken, che secondo gli ottimisti avrebbe dovuto mandare in archivio l’incidente del presunto pallone-spia. Nulla di tutto questo.
Come Washington non aveva raccolto l’iniziale linea distensiva di Pechino dopo l’avvistamento dell’aeromobile nei cieli americani, così Pechino non ha raccolto le dichiarazioni piuttosto concilianti di Joe Biden della scorsa settimana, con tanto di indiscrezioni e fonti di intelligence che avevano accreditato l’ipotesi del velivolo finito fuori controllo. No, Wang ha scelto di criticare la reazione definita «assurda e isterica» degli Stati Uniti, attaccando anche sul fronte delle restrizioni in materia di semiconduttori («protezionismo al cento per cento, egoismo al cento per cento») e lanciando nuovi avvertimenti su Taiwan, in seguito alle indiscrezioni sulla visita dell’alto funzionario del Pentagono Michael S. Chase a Taipei.
Così come la Cina ha cercato di presentare gli Stati Uniti come irresponsabili sul fronte geopolitico, militare e commerciale, Washington ha deciso di controbattere in modo tale da far saltare la prossemica cinese sulla guerra in Ucraina. Direttamente da Monaco di Baviera, Blinken ha spiegato di temere che Pechino possa rifornire di armi la Russia. Una mossa dettata anche dalla volontà di stanare Xi, chiamando il presunto bluff sulla proposta di pace. Il governo cinese ha negato, sottolineando che è proprio Washington a mandare armi a una delle due parti del conflitto, ma il sospetto espresso da parte americana è bastato per seminare dubbi in Europa.
L’alto funzionario della politica estera e di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ha parlato di linea rossa da non superare sull’invio di armi a Mosca. Altri governi, in primis quelli scandinavi e baltici, hanno lanciato simili avvertimenti. Lo stesso viaggio di Wang a Mosca assume ora sembianze diverse, a maggior ragione vista la contemporanea presenza di Biden a Kyjiv. Una divisione di campo sempre più netta, che la Cina ha favorito nei confronti degli Stati Uniti ma che non auspica sul fronte del conflitto e agli occhi dell’Europa.
Nessuno in Europa vuole vedersi chiudere la porta del mercato cinese. La Germania ha confermato nei giorni scorsi che Pechino è rimasta il suo principale partner commerciale per il settimo anno consecutivo con un interscambio di 297,9 miliardi di euro. Ben il venti per cento in più del 2021. Ma il clima da continuo regolamento di conti tra le due potenze non favorisce il raggiungimento degli obiettivi cinesi in Europa. Per riuscire non basta il quasi.