L’economia di guerra è alchimia al contrario: il suo fine ultimo è trasformare l’oro in piombo. Questo è un processo che anche la ricca Europa sta avendo problemi a gestire, complici decenni di pace e prezzi delle materie prime alle stelle. Ma nemmeno la Russia se la sta cavando un granché bene, in parte per problemi simili ai nostri, in parte grazie alle sanzioni occidentali. Come la sua controparte europea, a partire dagli anni Novanta l’industria della difesa russa ha subito un taglio netto in termini di catene di assemblaggio attivi: la temibile ma inefficiente industria delle armi sovietica è ormai un fantasma del passato.
Il giro di vite ha abbassato i ritmi produttivi, soprattutto per quel che riguarda sistemi complessi come missili, aerei e carri armati, a livelli assolutamente non sufficienti alle esigenze di una guerra su larga scala. Basta guardare il rifornimento delle truppe corazzate: fonti del giornale Novaya Gazeta riportano che Uralvagonzavod, il principale produttore russo di carri armati, sarebbe in grado di assemblare fra 200 e 250 carri all’anno. È un numero lontanissimo dalle perdite subite dal primo anno di guerra, che il blog Oryx stima essere superiori ai 1700 carri.
Per questo motivo, le autorità russe hanno più volte dichiarato la propria intenzione di effettuare una vera e propria mobilitazione economica. La riorganizzazione dell’economia dovrebbe passare da una commissione per il coordinamento della produzione bellica e diversi comitati per pianificare lo sforzo economico dietro alla “operazione speciale”. È un costrutto vagamente sovietico, senza però avere le idee chiare di cui almeno si poteva vantare il Gosplan di comunista memoria. Le competenze di questi comitati non sono chiarissime e le aziende del settore, pur passando a un regime di produzione continuo per stare dietro ad appalti statali, sono già oggi in grossissimo ritardo.
Detto questo, l’industria russa è stata effettivamente mobilitata. Gli effetti di questa mobilitazione sono però tutti da vedere. Sia Uralvagonzavod che altre aziende operano su tre turni, permettendo alle catene di montaggio di operare ventiquattr’ore su ventiquattro. A differenza dell’Europa, l’industria russa deve però anche fare i conti con le sanzioni imposte dal G7, il cui impatto diretto e indiretto sta profondamente alterando il funzionamento dell’economia russa.
L’impatto diretto è quello più facile da capire, e dipende dalle condizioni nelle quali si trovava l’industria della difesa russa prima dell’invasione. Contrariamente a quanto si possa pensare, il riarmo russo lanciato dopo il 2008 non è stato particolarmente proficuo per i produttori di armi della Federazione. A causa di una normativa particolarmente stringente, il governo ha sempre obbligato l’industria a vendere armi e munizioni alle forze armate a prezzi particolarmente bassi, minimizzandone così i profitti: è stimato che fra il 2016 e il 2020, le aziende del settore abbiano perso circa 1,7 trilioni di rubli (28,11 miliardi di dollari).
Questa pressione economica ha impedito alle aziende di reinvestire in ricerca e sviluppo o in processi industriali più avanzati, come macchinari più efficienti. Questa tendenza è andata di pari passo con una dismissione di aziende fondamentali per garantire la produzione di massa di armi e veicoli: ad esempio, parecchie acciaierie russe sono state chiuse e quelle sopravvissute non hanno investito in capacità di nicchia poco profittevoli, come la produzione di acciaio ad alta resistenza per nuovi cannoni.
Tutto ciò ha impedito all’industria russa di modernizzarsi e rimanere al passo con quella occidentale. Le aziende europee, pur lamentando difficoltà nel lanciare la produzione di massa di nuovi sistemi d’arma, rimane comunque piuttosto all’avanguardia e capace di fornire capacità di alto livello alle proprie forze armate (e agli ucraini). Alla Russia mancano invece i fondamentali per poter costruire in massa sistemi di combattimento all’altezza di quelli sempre più diffusamente adottati dagli arsenali ucraini. Questo limite si manifesta nei settori più disparati: nell’ambito dei droni, ad esempio, la Russia non è mai riuscita a produrre droni da combattimento paragonabili ai Global Hawk americani o anche solo i Bayraktar Tb2 turchi.
No chips, no party
In altri campi, l’industria russa si trova allo stesso livello occidentale, ma sconta debolezze in termini di componentistica. Ad esempio, tra il 2011 e il 2020, le aziende russe sono state capaci di produrre solo una media di dieci caccia Su-34 all’anno (contro la ventina persi nel 2022), e numeri altrettanto bassi si registrano nel settore dell’aviazione civile. Questo è perché molte aziende russe dipendevano in maniera esagerata da una fornitura di sensori e motori (!) occidentali e ucraini, oggi difficili da ottenere. Stesso discorso per quel che riguarda la produzione di missili da crociera: la dottrina russa ne prevede un uso particolarmente massiccio, ma allo stato attuale l’output industriale costringe le forze russe a limitarsi a un’unica ondata di bombardamenti al mese e scegliere fra una campagna strategica contro le infrastrutture civili o un sostegno alle proprie offensive sul campo.
C’è poi il tema trasversale dei semiconduttori, una componente fondamentale per qualsiasi sistema d’arma che però la Russia non è in condizione di produrre autonomamente. I chip russi sono almeno dieci anni indietro rispetto allo standard occidentale, e diversi piani di ammodernamento lanciati dopo il 2014 non hanno finora dato nessun frutto. Questo è un problema rilevante perché anche Glonass (l’equivalente russo del Gps) utilizza microprocessori di produzione occidentale: il ministero della Difesa ucraina ha pubblicato diverse foto di chip prodotti da Qualcomm (Usa) e STMicroelectronics (Svizzera) e montati missili russi usati nella campagna di bombardamenti. L’incapacità russa di procurarsi queste componenti per vie legali rappresenta un importante collo di bottiglia: il contrabbando attraverso l’Asia centrale e l’uso di chip estratti da elettrodomestici non riusciranno mai a riempire completamente il vuoto lasciato dall’embargo occidentale (sembra incredibile, ma un chip per frigoriferi non è ottimizzato per guidare un missile).
Meno tecnologia, più perdite
In sintesi, un aumento dei ritmi produttivi richiederà diversi sacrifici e compromessi in termini tecnologici. Ciò avrà verosimilmente un grosso impatto sia sulla precisione dei sistemi impiegati, sia sulla sopravvivenza degli assetti impiegati: basti pensare al carro T-62, a cui mancano numerosi sistemi di protezione standard per un tank moderno, o alla nave Moskva, da anni in attesa di aggiornamenti significativi. Certo, anche sistemi di bassa qualità possono avere un impatto: un massiccio uso di artiglieria convenzionale è letale anche se utilizza granate “stupide”. Ma esistono alcune capacità insostituibili, come l’impiego di droni per la ricognizione, l’attacco mirato con munizioni circuitanti (“droni kamikaze”) o contromisure per difendere un carro armato, senza le quali le forze russe sono destinate a soffrire perdite molto più pesanti rispetto agli ucraini.
L’effetto delle sanzioni non si traduce però solo in limitazioni diretti. Anche da un punto di vista sistemico, le sanzioni rischiano di provocare un cortocircuito che andrà a danneggiare ulteriormente la capacità russa di sostenere l’invasione. Alla vigilia del conflitto, il quaranta per cento del valore degli ordini ricevuti dalle aziende russe della difesa provenivano dall’estero, un valore che è probabilmente destinato a scendere: i prodotti militari russi non hanno dato grande prova di sé in Ucraina, la priorità è ormai produrre per le forze armate russe e i Paesi occidentali fanno attivamente ostruzionismo agli stati terzi disposti ad acquistare Made in Russia. Il probabile crollo di questa fonte di liquidità aiuta anche a ridimensionare l’aumento del budget della difesa, che nel 2023 ha superato i cinque trilioni di rubli (82 miliardi di dollari), ben 1,5 trilioni in più di quello che era stato previsto nel 2021.
Tutto ciò che i soldi non possono comprare
Va da sé che il Cremlino non si sta facendo problemi a finanziare questo ciclopico aumento delle spese con un enorme deficit. Il debito russo è destinato a crescere, ma gli esperti stimano che il governo potrà ricorrere alle proprie scorte finanziarie per almeno altri due anni. Questa libertà dovrebbe permettere a Mosca di essere particolarmente generosa con i lavoratori dell’industria, garantendo ad esempio grossi aumenti e adattando gli stipendi all’inflazione. Nel medio termine, l’incremento di spesa e il miglior trattamento ricevuto dai lavoratori dell’industria bellica potrebbe anche andare a chiudere il divario di circa quattrocentomila lavoratori che si stima oggi manchino al settore.
Ma nel lungo periodo, questa spesa senza limiti potrebbe avere effetti gravi sull’inflazione e porre in serie difficoltà il rublo, già fragile a causa delle sanzioni al settore energetico. Ciò non sarebbe un problema in una pura ottica bellica, se non fosse che Mosca dipende fortemente dall’importazione di prodotti dalla Cina (ad esempio droni per la fanteria) e dall’Iran (munizioni circuitanti e missili). Certo, il baratto rimane sempre un’opzione praticabile, ma difficilmente scalabile. Nel complesso, il bilancio russo rappresenta comunque una risorsa finita, e male che vada andrà sostenuto imponendo ai cittadini pesanti tasse.
Un’inondazione di rubli e ore-lavoro, sia in termini di numero di operai che di turni in fabbrica, possono poco di fronte all’assenza di risorse come acciaio, semiconduttori e know-how. È probabile che l’industria militare russa possa raggiungere livelli di produzione di massa, ma è probabile che la quantità andrà a scapito della qualità e del livello tecnologico delle armi usate. L’unica soluzione praticabile per mitigare queste difficoltà sarebbe un’allocazione più efficiente delle scarse risorse a disposizione di Mosca, come più tassazione dei super-ricchi al posto dell’emissione di debito e una pianificazione centrale per destinare i semiconduttori e le componenti high-tech all’industria militare. Ma in un regime che si basa largamente sulla corruzione e lo scarto fra le regole e la realtà dei fatti, è molto difficile che la macchina scelga di mettere in pericolo i profitti dei singoli in nome dello sforzo bellico.