L’ortografia è una cosa seriaQuando la virgola diventa una questione di vita o di morte

Quella tra soggetto e predicato è uno degli svarioni ortografici più diffusi, addirittura dilaganti, quasi assurti a regola. Perché non servono solo a prendere fiato: hanno una precisa funzione nell’architettura del testo scritto

(Pixabay)

«Io, sono nato qui». Non tutti se ne saranno resi conto, a Torino, ma la scritta al neon che fino a qualche settimana fa si accendeva di sera sulla facciata dell’ospedale ostetrico Sant’Anna, dove è venuta al mondo una buona parte dei torinesi, era un’installazione artistica: una new entry nelle “Luci d’artista” che dalla fine degli anni Novanta illuminano il Natale subalpino. Chissà quanti avranno altresì fatto caso che, oltre a essere un’opera d’arte, era anche un esempio, o almeno l’indizio, di un diffuso errore di punteggiatura. Perché quella virgola dopo “io” (peraltro ribadita in un segmento della stessa scritta sopra una porta d’ingresso dell’ospedale: “Io,”)?

Le virgole sono la croce senza delizia del linguaggio scritto – italiano ma non solo, ma soprattutto: testi che ne sono infarciti al limite dell’illeggibilità oppure che ne difettano, con il medesimo risultato; incisi e subordinate che si aprono senza chiudersi o che si chiudono senza essersi aperti; sparse come capita, quando ci si ricorda, un po’ sì e un po’ no.

La virgola tra il soggetto e il predicato, come nella frase da cui siamo partiti, al pari della virgola tra il predicato e il complemento oggetto, è uno degli svarioni ortografici più diffusi, addirittura dilaganti, quasi assurti a regola, come si può constatare quotidianamente sfogliando a caso un giornale, leggendo un post sui social o anche i libri dei migliori editori, ma in generale ogni tipo di testo scritto. Anche un’installazione artistica: a meno che l’autore, Renato Leotta, non intendesse in questo modo isolare il soggetto per conferirgli una maggiore enfasi: ossia non per informare tranquillamente che “io sono nato qui” ma per rivendicarlo sottolineando la parola “io”, così da riprodurre l’andamento tonale del parlato – una possibilità ortograficamente discutibile ma ammessa (anche quando a essere isolato dal verbo è l’oggetto) e con illustri esempi letterari («Voi, mi fate del bene», Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”).

L’uso scorretto della virgola è particolarmente frequente, se non senz’altro maggioritario, in presenza di “soggetti espansi”. Ecco un paio di occorrenze: «Porre l’accento sull’urgenza della restituzione [soggetto], si dimostra una strategia fallace» (esempio tratto da un lavoro universitario); «ciò che viene indicato sotto forma di complemento oggetto in una frase semplice [soggetto], può infatti essere espresso con un’intera frase» (da Wikipedia, sub voce “proposizione oggettiva”). Ma non sfuggono allo scivolone neppure gli scrittori più famosi, maestri di stile. Come Cesare Pavese: «Il profluvio di parole con cui la bionda mi aveva strappata al sofà [soggetto], non m’impedì di sentirmi anche qui un’intrusa» (Tra donne sole, Einaudi, 1949; la voce narrante è femminile). Oppure Italo Calvino: «Un giudizio di Claudio Gorlier […] sulla traduzione di Passage to India di E.M. Foster pubblicata da Einaudi [soggetto], mi spinge a scrivere questa lettera» (lettera del 10-15 ottobre 1963, in Lettere 1940-1985, Mondadori, 2000).

Gli ultimi due esempi sono citati nel libro di Leonardo G. Luccone “Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto” (Laterza 2018). L’autore immagina che Pavese – e lo stesso discorso può valere per Calvino – «abbia messo quella virgola perché, almeno in prima battuta, aveva avuto la sensazione che la frase fosse troppo lunga e elaborata e abbia perso la cognizione di aver costruito un soggetto espanso». Si tratterebbe in questo caso di una “virgola prosodica”, ossia ricalcata sull’articolazione vocale del testo, che non regge però all’analisi logica.

Le virgole non servono infatti a prendere fiato (un equivoco che «ha già prodotto abbastanza danni», osserva ancora Luccone), ma, come in genere tutta la punteggiatura, hanno una precisa funzione nell’architettura del testo scritto: servono a strutturare la frase secondo un ordine gerarchico, isolando una proposizione da una coordinata o una proposizione subordinata da quella principale, gli incisi, le apposizioni (“Vitruvio, l’autore del De architectura”), i vocativi («Silvia, rimembri ancora…»), nonché le singole parole e proposizioni in una enumerazione. Sebbene, come anche ricordava Luca Serianni, nel complesso delle norme che regolano la scrittura, quelle relative alla punteggiatura siano le meno codificate, alcuni punti fermi (nel nostro caso, virgole ferme) è possibile fissarli, e doveroso rispettarli.

Le virgole sono una cosa seria. Anche di vita o di morte, come nel celebre responso della Sibilla al soldato che l’aveva consultata: ibis redibis non morieris in bello, che a seconda di dove si fa cadere la virgola può voler dire «andrai, tornerai, non morirai in guerra», oppure «andrai, non tornerai, morirai in guerra». Questo ovviamente è un caso limite: non sempre la situazione è così drammatica, ma spesso è drammaticamente impossibile capire il senso di una frase se la virgola non sta al posto giusto.

Bruno Migliorini e Gianfranco Folena, nella loro “Piccola guida di ortografia” (1954, ristampata da Apice libri nel 2015), riportavano due frasi quasi identiche, tranne che per quel minuscolo ma dirimente paragrafema. «Gli impiegati della ditta X che non guadagnano abbastanza si lamentano» significa che a lamentarsi, tra gli impiegati, sono solo quelli che non guadagnano abbastanza; mentre se scriviamo «gli impiegati della ditta X, che non guadagnano abbastanza, si lamentano» intendiamo che a lamentarsi sono tutti gli impiegati.

Già Aristotele, nella Retorica, richiamava all’esigenza che «il discorso scritto sia facile da leggere e da pronunciare» e alla carenza di punteggiatura attribuiva la proverbiale oscurità di Eraclito. Lo sviluppo dell’interpunzione è un processo lungo e tortuoso, cominciato più o meno tremila anni fa (la prima attestazione in una stele moabita del IX secolo a.C.), che ha conosciuto un momento importante, sia pure ancora limitato alla funzione prosodica e non a quella “architettonica”, intorno al 200 a.C. con Aristofane di Bisanzio, grammatico della Biblioteca di Alessandria, autore di un sistema di notazione drammatica tripartito a uso degli attori, che indicava quando e quanto occorresse inspirare prima di un brano lungo, medio o breve.

Il brano breve, indicato da un segno apposito distinto dagli altri, si chiamava in greco kómma (“pezzetto, frammento”, dal verbo kópto, “taglio”), e comma è ancora oggi il nome inglese della virgola. La parola italiana, invece, viene dal latino virgula, diminutivo di verga, in quanto è simile a un bastoncino ricurvo: una forma consacrata da Aldo Manuzio nell’edizione del 1496 del “De Aetna” di Pietro Bembo. In quello scritto il cardinale umanista, tra esperienza diretta e reminiscenze classiche, raccontava la sua ascensione sul vulcano durante un’eruzione: un’impresa difficoltosa, compiuta con cautela, misurando i passi, come la punteggiatura nel suo testo. Per chi avesse voluto emularlo, seguendone il resoconto, una virgola fuori posto, come per il soldato dell’ibis redibis, avrebbe potuto rappresentare la differenza tra vivere o morire.

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