Artista della distanza Davide Tranchina fotografa paesaggi che non esistono

Sono tutti realizzati nel suo studio grazie all’uso della luce, e sono frutto della sua immaginazione. È questa la cifra del professionista creativo bolognese, che nel 2015 ha vinto la quarta edizione del Premio Francesco Fabbri per le Arti contemporanee

“Ho amato l’irraggiungibile in tutte le mie nostalgie” (Ho vissuto alla velocità dei sogni, 1963, Nazim Hikmet). Forse è la poesia il miglior modo per raccontare e spiegare il lavoro di Davide Tranchina, l’enigmatico artista della distanza. Proprio la “distanza” – sempre incolmabile e irraggiungibile – è il concetto chiave per avvicinarsi a comprendere il mondo di questo artista; non la fotografia o la luce che sono “solamente” gli strumenti della sua ricerca.

Del resto, i cieli e i paesaggi delle opere che hanno reso famoso Davide Tranchina non esistono e sono frutto di tecniche off-camera, ovvero sono opere fotografiche realizzate attraverso la luce senza l’impiego della fotocamera. È importante sapere che queste opere sono create per lo più nello spazio chiuso dello studio, esponendo il materiale fotografico (carta e negativi) alla luce naturale o artificiale (di una candela o neon). Ciò che lo spettatore vede è così un’illusione fatta di materia; sono luoghi reali dell’immaginazione.

L’artista riesce sempre a innescare un cortocircuito sensoriale tra figurazione percepita e realtà registrata (dalla fotografia) che provoca una vertigine e un senso di smarrimento nello spettatore: tutto è mosso, senza reali contorni e sfugge alla nostra piena comprensione. Per Tranchina l’arte e la fotografia non registrano ciò che l’essere umano riesce a percepire, ma rivelano una realtà ontologica. L’arte ha il grande potere di fornire gli elementi per vedere ciò che l’occhio umano – inteso come organo – da solo non riesce a cogliere.

I lontani paesaggi impossibili da Tranchina danno così forma alla proiezione ed espressione di un “io” collettivo archetipale. Mossi da limiti e paure, a tutti capita nella vita prima o poi di alzare gli occhi al cielo o guardare l’orizzonte: per tutti le domande sono simili e riguardano chi siamo e cosa ne sarà di noi e del nostro mondo. L’artista muove queste inquietudini così che perdersi nelle sue opere diventa un solitario percorso di meditazione e consapevolezza. Le immagini create da Tranchina non sono mai salvifici cieli né bucolici luoghi ameni; sono miraggi e cosmogonie lontane che raccontano un essere umano “solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole” (Ed è subito sera, 1942, Salvatore Quasimodo).

Non c’è però alcuna forma di nichilismo nelle sue opere. La struggente consapevolezza del non detto anche a livello di immagine libera lo spettatore. Di fronte a queste opere, così come di fronte alle “attese” di Fontana, abbiamo tutti la possibilità di andare oltre ciò che vediamo, completandola con la nostra immaginazione. “Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete / Io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si spaura” (L’infinito, 1819, Giacomo Leopardi). 

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