“Ho amato l’irraggiungibile in tutte le mie nostalgie” (Ho vissuto alla velocità dei sogni, 1963, Nazim Hikmet). Forse è la poesia il miglior modo per raccontare e spiegare il lavoro di Davide Tranchina, l’enigmatico artista della distanza. Proprio la “distanza” – sempre incolmabile e irraggiungibile – è il concetto chiave per avvicinarsi a comprendere il mondo di questo artista; non la fotografia o la luce che sono “solamente” gli strumenti della sua ricerca.
Del resto, i cieli e i paesaggi delle opere che hanno reso famoso Davide Tranchina non esistono e sono frutto di tecniche off-camera, ovvero sono opere fotografiche realizzate attraverso la luce senza l’impiego della fotocamera. È importante sapere che queste opere sono create per lo più nello spazio chiuso dello studio, esponendo il materiale fotografico (carta e negativi) alla luce naturale o artificiale (di una candela o neon). Ciò che lo spettatore vede è così un’illusione fatta di materia; sono luoghi reali dell’immaginazione.
L’artista riesce sempre a innescare un cortocircuito sensoriale tra figurazione percepita e realtà registrata (dalla fotografia) che provoca una vertigine e un senso di smarrimento nello spettatore: tutto è mosso, senza reali contorni e sfugge alla nostra piena comprensione. Per Tranchina l’arte e la fotografia non registrano ciò che l’essere umano riesce a percepire, ma rivelano una realtà ontologica. L’arte ha il grande potere di fornire gli elementi per vedere ciò che l’occhio umano – inteso come organo – da solo non riesce a cogliere.
I lontani paesaggi impossibili da Tranchina danno così forma alla proiezione ed espressione di un “io” collettivo archetipale. Mossi da limiti e paure, a tutti capita nella vita prima o poi di alzare gli occhi al cielo o guardare l’orizzonte: per tutti le domande sono simili e riguardano chi siamo e cosa ne sarà di noi e del nostro mondo. L’artista muove queste inquietudini così che perdersi nelle sue opere diventa un solitario percorso di meditazione e consapevolezza. Le immagini create da Tranchina non sono mai salvifici cieli né bucolici luoghi ameni; sono miraggi e cosmogonie lontane che raccontano un essere umano “solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole” (Ed è subito sera, 1942, Salvatore Quasimodo).
Non c’è però alcuna forma di nichilismo nelle sue opere. La struggente consapevolezza del non detto anche a livello di immagine libera lo spettatore. Di fronte a queste opere, così come di fronte alle “attese” di Fontana, abbiamo tutti la possibilità di andare oltre ciò che vediamo, completandola con la nostra immaginazione. “Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete / Io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si spaura” (L’infinito, 1819, Giacomo Leopardi).