Quelli di questi giorni in Francia sembrano scioperi e manifestazioni contro la riforma delle pensioni. Ma in realtà sono molto di più: sono l’ennesimo atto dello psicodramma collettivo della sinistra francese (e, a dirla tutta, mondiale).
La storia, per sommi capi, è questa: il governo di Elisabeth Borne, premier nominata da Emmanuel Macron e il cui governo non ha una maggioranza autonoma ma si regge su un’alleanza fragile fragile con gli ex nemici gaullisti dei Républicains, ha messo a punto una bozza di riforma delle pensioni che sarà votata il prossimo sei febbraio (e che ha i voti per passare).
L’idea di riformare la previdenza francese non è balzana, al contrario è piuttosto radicata nella razionalità, tanto che di riforma del sistema delle pensioni in Francia si parla grossomodo dai tempi di Nicolas Sarkozy e che lo stesso Macron, nel 2019, aveva presentato una proposta di legge poi andata a monte per l’arrivo del Covid.
Il problema, la ragione per cui ogni politico francese che abbia responsabilità di governo si ritrova a tentare di mettere mano alle pensioni, è che il sistema delle pensioni francesi è uno dei più dispendiosi (tredici per cento del Pil; secondo solo a Italia e Grecia), improduttivi (si va in pensione a 62 anni, l’età pensionabile più bassa d’Europa, seconda solo ai 61 anni della Svezia), iniqui e disordinati d’Europa (ha circa quarantadue casse previdenziali differenti, ognuna con sue regole, età minime, sistemi, piccoli privilegi e posizioni di rendita).
Riformare le pensioni però, si sa, è faccenda delicata, sia perché a nessuno piace sentirsi dire che deve lavorare di più (specie da un Presidente al trenta per cento di popolarità) sia perché questi sono anni di polarizzazione e propaganda costante, in cui basta un niente (figuriamoci una riforma delle pensioni) per scatenare proteste e opposizione.
Così la proposta di Borne e Macron appare incredibilmente timida: si parla di aumento di età pensionabile sì, ma solo di due anni, da qui al 2030; si parla di aumento del minimo di contributi (da 41 a 43 anni, ma con la garanzia che nessuno possa lavorare oltre i 67 anni, e che i lavoratori precoci possano andare in pensione a 58 anni). Il tutto, addolcito dalla promessa di raddoppiare da seicento a milleduecento euro l’assegno per la pensione minima.
Nonostante le sue cautele però, il progetto è stato accolto, come da copione, da piazze piene, slogan e scioperi (sono ricomparsi anche i gilet gialli), nei quali però non ci si limita a protestare contro la riforma delle pensioni ma, in buona sostanza, contro Macron e tutto ciò che rappresenta. Dunque non si protesta contro le iniquità che penalizzano i più giovani e meno tutelati ma, in un gioco di paradossi, contro chi quelle iniquità vuole scardinare. E se non ha senso pazienza.
In Francia, in questo momento, non c’è una maggioranza solida e l’ipotesi di elezioni anticipate è molto concreta. E quindi, giustamente da par suo, il leader della sinistra movimentista francese, Jean Luc Mélenchon capitalizza tutto il dissenso che può, sognando, entro pochi mesi, di dare la spallata alla maggioranza di En Marche e Républicains. Non c’è da biasimarlo. Fa parte del suo ruolo di unico leader possibile della sinistra francese.
Sì, perché a far da opposizione a Macron ci sono solo Marine Le Pen e Mélenchon. In teoria, ma solo in teoria, ci dovrebbe essere anche il Partito Socialista (partito dal quale proviene Macron stesso, tra l’altro), ma oggi il partito è ridotto all’ombra di se stesso, confuso, irrilevante trasparente, dimentico di se stesso e degli altri.
Per dire quanto grande sia la scollatura tra l’ex partito delle masse operaie di Francia e la realtà, proprio in questi giorni di tormento sociale, di piazze piene, di discussioni sul futuro delle pensioni e delle generazioni, la dirigenza del partito ha pensato bene di trasmettere la sua vicinanza alle masse chiudendosi in conclave per celebrare il suo ottantesimo congresso. Così, giusto per cantargliela, alle iniquità sociali.
Il congresso si è trascinato in una lunghissima e complicata (e pure condita di parole pesanti, per dirla tutta) lotta per la leadership, conclusasi, dopo tanto tormento, con la conferma del leader uscente, Olivier Faure e della sua linea politica che prevede la conferma dell’alleanza con Mélenchon, al quale è delegata ogni leadership.
Una resa, in pratica. L’ammissione della fine di una storia.