«No, Lydia Tár non è reale», scriveva il magazine The Cut a ottobre 2022, mentre Tár, l’ultima creazione del regista Todd Field, veniva proiettata nelle sale americane. Come l’autrice di quell’articolo, all’annuncio della data di uscita del film – giovedì 9 febbraio in Italia -, dopo che avevo divorato i trailer, ho cercato “Lydia Tár” su Google, convinta di trovarci la vera direttrice d’orchestra che dà il titolo alla pellicola: Tár, la prima donna a condurre la Filarmonica di Berlino, autrice di musiche per il teatro e il cinema, nonché una dei quindici cosiddetti EGOT, vincitrice cioè dei premi Emmy, Grammy, Oscar e Tony. Con mia grande sorpresa c’erano solo immagini di Cate Blanchett.
No, Lydia Tár non è reale, è vero, ma la storia che per oltre due ore e mezza di film la vede protagonista ricalca quella di molti uomini che da Harvey Weinstein (di cui nelle scorse settimane si è tornati a parlare per via del film Anche io di Maria Schrader) in avanti hanno riempito le pagine dei giornali con la loro sconcertante serie di violenze e soprusi.
Tár si apre con l’elenco dei molti riconoscimenti del “maestro” fatto dal giornalista del New Yorker Adam Gopnik e recitato a memoria dalla sua assistente Francesca (Noémie Merlant). Vengono anche menzionate alcune vere direttrici d’orchestra donne: Marin Alsop, JoAnn Falletta, Laurence Equilbey, Nathalie Stutzmann. E mentre qualcuno modifica la pagina Wikipedia dedicata a Lydia, scopriamo che questa è legata sentimentalmente a Sharon (Nina Hoss), primo violino della Filarmonica, e che insieme hanno una figlia, la piccola Petra.
Man mano che il film procede, emerge il lato oscuro del potere di Lydia, il suo istinto predatorio rivelato attraverso dettagli: una capigliatura femminile che la osserva da lontano, sempre di spalle, una dedica lasciata su un libro, una Birkin rossa di Hermès come trofeo di una conquista amorosa, un paio di stivaletti blu scamosciati.
Lydia è potente, ma usa questo potere in modo illegittimo, per promuovere la carriera delle giovani donne da cui è attratta, distruggere quella di altre. Quando Krista – una delle sue ex protette – si toglie la vita, contro di lei vengono mosse delle accuse e la sua credibilità comincia a essere messa in dubbio. Come artista oltre che come persona.
Il processo mediatico che deciderà le sorti della sua vita professionale ha molto in comune con quelli a cui negli ultimi tempi sono stati sottoposti vari personaggi dello spettacolo, da Kevin Spacey alla coppia Johnny Depp-Amber Heard e, più recentemente, al cantante lirico Plácido Domingo. «Hai mai avuto un problema con uno studente o un collega dove quella persona potrebbe aver interpretato male la tua intenzione?», chiede Lydia al suo mentore, ormai a un passo dalla rovina. «Al giorno d’oggi essere accusato equivale a essere colpevole», risponde lui.
Tár è un film ambiguo non soltanto perché affronta questioni come il #MeToo e la cancel culture senza prendere posizione, ma perché lo fa dalla parte del carnefice. Lydia è convinta che si debba separare l’arte dall’artista e che le colpe di questo non possano ricadere sulle sue opere. Lo dice senza mezzi termini a uno studente BIPOC (acronimo di Black, Indigenous and People of Color) che si rifiuta di suonare Bach a causa della sua cattiva “condotta sessuale”. Quelle parole, tuttavia, verranno manipolate ad arte, screditando ulteriormente la figura di Lydia e suggerendo che questa, oltre che una cattiva, è in parte anche una vittima.
Scaricata dall’orchestra, Lydia si reinventa nel Sudest asiatico. La punizione che riceve sfiora la parodia. E non poteva essere altrimenti in un momento storico in cui, complici i social, la caduta delle celebrità fa più rumore della loro ascesa. «Abbiamo bisogno di una nuova storia», l’aveva incoraggiata qualcuno alla Columbia Artists Management. Lo stesso consiglio che potrebbero aver dato all’attore Armie Hammer che, dopo le accuse di molestie e cannibalismo, alcune indiscrezioni volevano prima concierge, poi agente immobiliare alle isole Cayman.
C’è da chiedersi perché nel film la parte del cattivo sia affidata a una donna (ma che parla di sé al maschile). Marin Alsop si è detta offesa «come donna, come direttrice d’orchestra e come lesbica». Tár, secondo lei, avrebbe potuto basarsi sulle storie vere di molti uomini; scegliendo un personaggio femminile, invece, presuppone che le donne al potere si comportino allo stesso modo degli uomini. Cate Blanchett da parte sua difende il film: il potere è una forza corruttrice, afferma, e come tale non ha genere.