Amico de Linkiesta. Si definì così una volta Nicolò Mineo, morto ieri a Giarre (provincia di Catania) all’età di 89 anni. Con lui se ne va non solo il fine critico letterario, il rigoroso filologo, l’accademico dai modi gentili ma anche uno dei massimi studiosi italiani di Dante e Giovanni Verga. Sull’uno e sull’altro tenne anche corsi specialistici all’Università di Tours e alla Sorbona, dedicando al profeta del Verismo contributi scientifici difficilmente eguagliabili e, più in generale, un impegno a tutto tondo concretatosi nelle cariche di presidente della Fondazione Verga, di direttore responsabile degli Annali della Fondazione Verga, di direttore del Centro di studi verghiani di Vizzini.
Ma il suo primo involontario amore era stato Carducci, cui dedicò la tesi di laurea in Lettere classiche, assegnatagli da un nome dal calibro di Carlo Grabher e discussa nel marzo del 1956 all’Università di Catania. Fu l’illustre commentatore della Divina Commedia a conquistare interamente il talentuoso discepolo d’origini alcamesi – nel popoloso comune in provincia di Trapani era infatti nato il 2 gennaio 1934, per poi trasferirsi già nell’infanzia a Giarre – agli studi danteschi non senza averlo subito preavvertito: «Ricordi che Dante si comincia a capire a quarant’anni».
Quegli studi Mineo non li avrebbe più abbandonati sino alla morte. Innumerevoli i saggi al riguardo fino al volume Profetismo e Apocalittica in Dante, dalla Vita Nuova alla Divina Commedia e soprattutto, per importanza e numero di edizioni, la monografia Dante comparsa la prima volta per i tipi Laterza nel 1970. Senza parlare poi del suo ruolo di socio fondatore della Société dantesque de France, d’iniziatore della Lectura Dantis siciliana nella città etnea, di presidente del Comitato scientifico del Seminario dantesco, istituito presso l’ateneo catanese, e dell’affascinante lettura d’un canto della Commedia, che dal febbraio 2019 pubblicava ogni venerdì sul quotidiano La Sicilia.
Sullo scudiero dei classici Mineo sarebbe comunque tornato in seguito con alcuni saggi, laddove nel triennio di perfezionamento in Filologia moderna presso la Normale di Pisa (1956-1959) si era invece avvicinato con pari passione e lucidità di pensiero alla figura e all’opera di Giuseppe Giusti.
Fu nella prestigiosa scuola superiore universitaria che avvenne l’incontro con Luigi Russo, da lui poi sempre riguardato come il maestro per antonomasia. Dell’insigne critico letterario, autore d’una mai troppo celebrata monografia su Verga, avrebbe scritto più volte soprattutto in occasione del convegno nazionale, tenutosi a Caltanissetta e a Delia dal 15 al 18 ottobre 1992 in occasione del centenario della nascita, curandone anche i relativi atti.
Con accenti di grata riconoscenza avrebbe spiegato in una mail, indirizzata al sottoscritto l’11 febbraio dello scorso anno: «Penso che il suo Giovanni Verga sia a fondamento della nostra lettura. Le letture successive, di grande levatura non poche, sono uno sviluppo e un approfondimento di quanto Russo aveva definito. Io lo ebbi maestro a Pisa nei tardi anni Cinquanta e discussi con lui di Verga in occasione di un seminario. Ma non amava che si riproponesse il problema. Raccomandava però che non se ne parlasse in termini populistici o proletari».
Se tutta la sua carriera d’insegnante d’italiano e latino nei Licei classici prima (1958-1969), di docente universitario di Letteratura italiana poi – iniziata nel ’58 come assistente volontario, quindi proseguita fino all’ordinariato (1980-2008), alla direzione del Dipartimento di Filologia moderna (1982-1985) e alla presidenza della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo catanese – si svolse nell’area etnea, compresa l’esperienza di consigliere comunale tra le fila dello Psiup negli anni ’70 e di assessore alla Cultura e Istruzione nella sua Giarre (1998-2004), lo dovette proprio al suo venerato maestro.
In un’intervista rilasciata cinque anni fa, aveva ricordato non senza emozione come Luigi Russo («lui nel dissenso, non persuadeva, ma quasi bastonava») gli avesse urlato «che ormai i siciliani dovevamo operare in Sicilia, per la Sicilia, perché ormai c’erano le condizioni. Non me ne sono mai pentito, ma è vero che da qui tutto è più difficile».
Non basterebbe una pubblicazione se si volessero indicare tutti gli scritti e i titoli, i premi, gli incarichi accademici e culturali, conseguiti negli anni dal professore Nicolò Mineo. Lascia però in chi l’ha conosciuto il ricordo di «un uomo di un garbo d’altri tempi: un uomo semplice che colpiva per una sorta di candore, la nitidezza di pensiero, la costante curiosità». A parlare così è Paolo Patanè, coordinatore dei Comuni Unesco della Sicilia, che spiega a Linkiesta: «Abitavamo vicini, a poche decine di metri, e mi ero abituato a vederlo, sin da piccolissimo, nei piccoli gesti della vita quotidiana. Ricordo quando, da ragazzo, entrai per la prima volta nella sua famosa e gigantesca biblioteca: ne rimasi davvero impressionato. Era il suo vascello, lo spazio quasi metafisico in cui aveva accumulato le mappe del suo viaggio nel mondo e nel tempo. La grande finestra sull’Etna possedeva suggestione e poesia ma tutto l’insieme diceva tanto di lui e del suo appassionato indagare nel sapere. Quella grande stanza in qualche modo era lui. Sono state frequenti le circostanze della vita che mi hanno dato modo di incrociarlo: i dialoghi sui diritti civili e sulla dignità delle persone ma anche le iniziative di conoscenza ed esplorazione del territorio ionico etneo, in cui il suo ruolo è stato gigantesco nel ricomporre memorie e identità. Siamo stati insieme nel Comitato d’onore per i duecento anni di Giarre, in un gruppo che vedeva, tra gli altri, anche giganti come Franco Battiato e Giuseppe Giarrizzo».
Il fine intellettuale giarrese, che è stato in passato anche presidente d’Arcigay nazionale, ci tiene a sottolineare quanto di Mineo amasse soprattutto «la capacità di provare stupore e di mostrarlo, sia pure con l’incanto della sua riservatezza. Era l’ultimo di una grande scuola e il primo di una schiera di donne e uomini di valore che hanno saputo cimentarsi per il bene comune. Passerà molto tempo ed avremo ancora tanto da scoprire di Nicolò Mineo».