Sbagliando non s’imparaIl podcast come segno del declino della civiltà (e l’errore di Checco Zalone)

In questa inesorabile discesa agli inferi della pigrizia viviamo nel terrore che ciò che produciamo sia troppo difficile per un pubblico sempre più stupido e meno disposto a far fatica

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Questo sarebbe dovuto essere un articolo su «Sbagliando si impara», la frase stampata sulla stola di Checco Zalone quando dà le spalle al pubblico, durante le date postsanremesi del suo spettacolo teatrale, dopo aver scritto una lettera a sé stesso in cui si scusa per le molte volte in cui ha sbagliato, per le molte volte in cui ha usato i cataloghi di Postalmarket come materiale da masturbazione.

Questo sarebbe dovuto essere un articolo sulla frase che mi aveva fatto più ridere questa settimana, e chi meglio di Checco Zalone con le modelle di Postalmarket, senonché poi è arrivata questa: «Sebbene Rowling non abbia preso parte all’ideazione creativa del gioco, beneficia finanziariamente dalle sue vendite, causando ansia per l’ipotesi che giocarci equivalga a sostenere la causa anti-trans».

La scrive una giornalista di Variety la quale evidentemente non legge neppure gli articoli che lei stessa sta scrivendo, considerando che la scrive venti righe sotto la notizia che Hogwarts Legacy, il videogioco di Harry Potter uscito due settimane fa, ha già venduto dodici milioni di copie, per un incasso di ottocentocinquanta milioni di dollari, e che a giovedì i preoccupatissimi, ansiosissimi militanti immaginati da Variety avevano giocato per un totale d’un po’ più di duecentottanta milioni di ore in due settimane.

Ci sono molte domande che ci si possono fare su questa notiziola, alcune delle quali forse varrebbero un pezzo di spettacolo di Zalone. Per esempio: in cosa consiste la causa anti-trans? Nell’andare casa per casa a chiedere alla gente di non essere così disturbata da tagliarsi organi sessuali sani, «se proprio vuoi chiamarti Gina anche se hai i baffi fallo pure, caro Asdrubale, ma ti prego non mutilarti»?

Ma anche domande alle quali lo Zalone del posto fisso aveva già risposto: duecentottanta milioni di ore giocate in due settimane cosa dicono delle nostra produttività? E: che speranza può mai esserci per un mondo che parte dai libri, scende ai film, e poi ai videogiochi, perché nessun consumo culturale è abbastanza semplificato per le ore nelle quali non produciamo prodotto interno lordo e non combattiamo le cause anti-trans?

Io, per dire, questa settimana ho ascoltato due ore di “The Witch Trials of JK Rowling”, il podcast che Meghan Phelps ha realizzato per la piattaforma di Bari Weiss, e già così sento d’aver abbassato la media culturale delle mie giornate. Non perché il podcast sul delirio che circonda l’autrice di Harry Potter non sia pieno di cose interessanti – lo è – ma perché mi pare evidente che i podcast stanno lì, un po’ sopra ai videogiochi ma molto sotto ai film, nella gerarchia della nostra calante voglia di utilizzare i neuroni: raccontami una storia, io ascolto senza bisogno d’impegnarmi come con le fiabe di quand’ero puccettona.

Una volta una storia così sarebbe diventata un libro, l’avremmo letto e qualcosa avremmo assorbito, poi siamo passati da impegnarci a capire le frasi a buttare un occhio ai documentari di Netflix, e ora siamo scesi ai podcast da tenere accesi mentre cuciniamo guidiamo telefoniamo ci facciamo la manicure, e chissà cosa c’è ancora sotto, nella discesa agli inferi della pigrizia. Viviamo nel terrore che ciò che produciamo sia troppo difficile per un pubblico sempre più stupido e sempre meno disposto a far fatica, e non sappiamo più come abbassare il livello.

Non è un problema cominciato ieri (i fenomeni culturali non lo sono mai, i declini delle civiltà non sono sveltine). È la stessa Rowling a raccontare, in “The Witch Trials”, che, quando dopo molti rifiuti editoriali arrivò qualcuno disposto a pubblicarla, quell’editore stampò però di quella prima edizione di Harry Potter solo cinquecento copie: chi vuoi mai che lo compri, una storia in costume, i bambini non fanno la fatica di leggere una storia non ambientata al presente, in collegio poi, un’anticaglia che faticano a immaginare.

Mi scuso con Meghan Phelps per avere dubitato che sapesse quello che faceva, durante una ricostruzione degli anni Novanta – il decennio in cui Harry Potter comincia a venire pubblicato – che all’inizio mi era sembrata assurdamente americanocentrica. È un difetto che la saggistica americana sugli anni Novanta ha sempre; per gli intellettuali americani non esiste nulla che non sia accaduto dentro gli Stati uniti d’America, e negli ultimi anni leggendo “The Naughty Nineties” di David Friend o “The Nineties” di Chuck Klosterman ho molto sbuffato: si può ricostruire il decennio della Cool Britannia o di Mani pulite ignorando l’esistenza di entrambe le questioni?

Quando Phelps inizia a parlare di Waco o di Columbine, penso sia la solita americana per cui esiste solo ciò che accade nei codici postali intorno a lei: Rowling è inglese, che c’entra quell’umore collettivo con Harry Potter? C’entra perché – persino dai podcast si possono imparare cose – nelle prime cronache di Columbine era saldamente presente la leggenda che i due liceali assassini avessero chiesto alle vittime, prima di ucciderle, se fossero cristiane.

Chi riesce ancora a conservare memoria dei cambiamenti nei decenni se ne ricorderà: c’è stato un tempo in cui subito dopo queste stragi non ci si riprometteva di cambiare le leggi americane sul possesso di armi, né ci si doleva per la piaga del mancato equilibrio psichico; c’è stato un tempo in cui s’indagavano i consumi degli assassini: a che videogiochi giocano, che rap ascoltano, quali poster in cameretta li hanno fatti sbroccare e dire sai che c’è, pianifico una strage in una scuola.

Fu quindi fisiologico decidere che si trattava d’una persecuzione culturale della cristianità e che ne fosse corresponsabile l’autrice dei libri col bambino mago. Quando, tre mesi dopo Columbine, uscì il terzo Harry Potter, Rowling era colei che incita alla stregoneria, quindi la nemica dei valori cristiani, quindi la mandante morale delle stragi nelle scuole.

Ventiquattro anni dopo, se c’è una cosa che ci ha insegnato l’internet è come funzionano le falsificazioni informative. Che una smentita non è, come si diceva nel Novecento, una notizia data due volte, ma è un inutile rumore ulteriore che si perde nel passaparola, nel modo distratto in cui consumiamo le notizie e le interpretazioni, nell’eccesso d’informazioni che diventa caos.

Ci sarà sicuramente qualcuno che crede ancora che Columbine sia stata una strage con una motivazione anticristiana; esattamente come, per quanti articoli possano fare i giornali per dire che stiamo dando da anni della transfobica a una che non ha mai detto mezza parola contro il diritto degli esseri umani adulti di farsi chiamare Gina invece che Asdrubale, ci sono e continueranno a esserci migliaia di rumorosi disinformati pronti a twittare che schifo, Rowling è transfobica. Prima o poi doveva arrivare anche il momento in cui Checco Zalone aveva torto: sbagliando non s’impara.

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