Non si è ancora capito bene perché la lettera di Volodymyr Zelensky sia stata letta sul palco di Sanremo alle due e passa di notte. Non lo si è spiegato perché è inspiegabile oltre che ingiustificabile. Un gesto di inaudita scortesia, relegare un momento così importante del Festival giusto un po’ prima della celebrazione di Marco Mengoni, una presa in giro nella massima opacità.
Poi ieri sera è apparso un improvvido squarcio di chiarezza, con Silvio Berlusconi che ha sostanzialmente preso le parti dell’amico Vladimir Putin e svillaneggiato Volodomyr Zelensky. E viene il sospetto che forse l’anziano padrone di Mediaset fiuti l’aria che tira e conti ancora qualcosa in Rai, nell’azienda pubblica che ha capito che il presidente ucraino non è gradito ai padroni del 25 settembre.
Si è tentato dall’inizio di boicottare il presidente ucraino e la sua battaglia, e infatti è verosimile che appena iniziate le polemiche sulla sua presenza personale al Festival egli stesso abbia chiesto di soprassedere e ripiegare sulla famosa lettera. È la gestione vergognosa di questa vicenda – trattata molto all’italiana, famose du’ spaghi che c’è Zelensky – che obbligherebbe a una protesta contro i vertici della Rai.
Altro che il bacio con la lingua e la foto del sottosegretario Galeazzo Bignami strappata. Il problema di questo Festival non si chiama Fedez, si chiama Zelensky. Se Giorgia Meloni e i suoi boys avessero protestato per questo atteggiamento irriguardoso verso un Paese invaso e massacrato avrebbero meritato un plauso, ma non avendolo fatto si vede che in fondo non gliene importa molto. E, come ha scritto qualcuno, la premier manda le armi ma senza farlo troppo a vedere perché in termini di consenso non rende: quant’è lontano Mario Draghi.
Invece i bravi ragazzi della “nuova” destra si stanno scatenando contro Fedez e Rosa Chemical, i quali come fanno sempre i “girotondini” vecchi e nuovi, con le loro provocazioni non sempre azzeccate non fanno altro che offrire il fianco ai soliti reazionari, anche loro vecchi e nuovi, come se la dannazione delle battaglie di libertà in questo Paese stesse esattamente nell’avvitamento tra lo sberleffo e la reazione, nel perpetuarsi dell’antica tenzone tra Pulcinella e il Gendarme del teatro dei burattini.
Ma certo, nessuno si illude che possa scaturire da un Festival canoro l’elevazione culturale e civile di un Paese, a pensarlo si rischia di fare del sociologismo della domenica, per quanto i nostri governanti dovrebbero riflettere senza stizzirsi su certe opinioni, su certi mutamenti di costume e di mentalità che l’Ariston non ha scagliato sul Paese ma ha recepito dal Paese.
Un Festival è un Festival e Amadeus non è Ferruccio Parri, così come Gianni Morandi non è Sandro Pertini. Che la destra meloniana, con la ruote di scorta portate da Matteo Salvini e Giuseppe Conte, pensi di espugnare la Rai come fosse la Barcellona della guerra di Spagna è penoso, essendo la verità molto più semplice: Giorgia Meloni, autoproclamatasi padrona d’Italia grazie al ventisei per cento del voti, dall’inizio della sua avventura a Palazzo Chigi è convinta che la Rai le spetti, solo che aveva in mente tempi più lunghi e azioni non traumatiche, come quelle che metteva in atto Silvio Berlusconi, per intenderci, un uomo che confondeva Rai e Mediaset.
Matteo Salvini, che come spesso gli accade non ha capito la situazione, agita lo spauracchio del taglio dei fondi con il canone fuori dalla bolletta, senza rendersi conto che per Giorgia la Rai va presa, non distrutta.
Ora, la premier pensava di agire chiane chiane, come si dice a Napoli, un pezzo alla volta. Solo che adesso i girotondini di Fedez le hanno offerto la testa di Carlo Fuortes su un piatto d’argento, e lei ha già l’acquolina in bocca per papparsi la direzione generale e il Tg1. E di Zelensky, nella Grande Commedia Sanremese, chi se ne frega. E meno male che c’era Tananai.