Repressione e censuraDopo il terremoto in Turchia si aggrava l’autoritarismo di Erdogan

Il presidente ha risposto alla crisi con la stretta sui social media (su tutti Twitter, diventato inaccessibile per ore) e la persecuzione giudiziaria dei giornalisti, a cui viene complicato il lavoro e l’accesso alle aree colpite. Le conseguenze del sisma sono anche sociali e a farne le spese sono i migranti

Erdogan visita le zone terremotate
Foto: Turkish Presidency via AP, File

Il terremoto che ha colpito il Sud della Turchia è stato un evento naturale senza precedenti per la sua intensità, ma lo stesso carattere di novità non si ritrova nella reazione della politica. Anzi, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha ancora una volta risposto alla crisi in corso con la repressione delle voci critiche nei suoi confronti attraverso la censura dei social media e la persecuzione per via giudiziaria dei giornalisti.

Un copione già visto, ma che ha avuto effetti negativi anche sull’assistenza ai terremotati, già alle prese con la devastazione causata dal sisma e con le difficoltà imposte dal clima rigido di febbraio.  Il presidente è finito al centro delle polemiche fin da subito a causa del ritardo nei soccorsi, giunti in alcuni paesi solo molte ore dopo le scosse, e per la disorganizzazione dimostrata in alcuni casi dalla macchina degli aiuti.

A lamentare le carenze dell’Agenzia per i soccorsi (Afad) è stato in particolare il sindaco di Hatay, Lütfü Sava, che ha denunciato come i primi operatori siano arrivati solo la mattina seguente, compromettendo così le possibilità di sopravvivenza di coloro che erano rimasti intrappolati vivi sotto le macerie. Il primo cittadino non è stato l’unico a esternare la sua insoddisfazione. In tanti hanno usato i social media – in particolare Twitter – per denunciare ritardi o carenza negli aiuti, dando vita a un’ondata di proteste online prontamente represse dalle autorità.

Nelle ore successive al terremoto Twitter è diventato improvvisamente inaccessibile nel Paese, in un evidente tentativo del governo di arginare le critiche contro il suo operato. Questa mossa però ha avuto degli effetti negativi anche sui soccorsi: in molti hanno usato il social media per segnalare la propria posizione sotto le macerie, nella speranza di ricevere prontamente aiuto.

Alla censura della piattaforma ha fatto presto seguito anche quella dei media mainstream. Diversi giornalisti hanno denunciato episodi di violenza e aggressioni nei loro confronti mentre erano intenti a intervistare le vittime del terremoto o a filmare e fotografare la devastazione lasciata dal sisma del 6 febbraio. Le interviste potevano essere condotte solo sotto l’occhio vigile della polizia, mentre altri giornalisti sono stati fermati con l’accusa di diffondere false informazioni e di incitare all’odio e alla rivolta contro lo Stato.

Ad alcuni è stato persino limitato l’accesso alle zone terremotate a causa dei loro “precedenti”, mentre nella provincia di Diyarbakir sono stati fatti entrare solo coloro che erano in possesso di specifici permessi. Tutte manovre pensate per rendere il più difficile possibile il lavoro dei media locali e internazionali e limitare così la diffusione di voci critiche nei confronti del governo, come già accaduto in passato.

Intanto nelle aree terremotate è stato anche dichiarato lo stato di emergenza per tre mesi, una decisione necessaria per la gestione della crisi ma che getta un’ombra sulle prossime elezioni. Erdogan aveva annunciato l’intenzione di anticipare le urne a maggio, ma il cambio di data non è stato ancora ufficializzato e sembra sempre più improbabile che ciò avvenga dopo il terremoto.

Garantire il diritto di voto nelle aree colpite dal sisma sarebbe complicato, ma si tratta principalmente di una valutazione politica. Il presidente sta ricevendo numerose critiche non solo per la gestione della crisi, ma anche per il mancato controllo sulla costruzione degli edifici crollati e sui condoni concessi negli ultimi anni – in particolare nel 2018 – e che hanno contribuito a rendere così elevato il numero dei morti.

A peggiorare la situazione per Erdogan sono anche gli effetti del sisma sull’economia turca, già in crisi da anni anche a causa delle politiche monetarie imposte dal presidente. I costi per la ricostruzione e per l’assistenza comporteranno un significativo aumento della spesa pubblica, aumentando così il deficit e aumentando i problemi economici del paese.

Senza contare che ben dieci province non potranno più apportare sostegno al Pil per un periodo di tempo non ben definito. Ma sulla ricostruzione pesa anche l’incremento del prezzo del cemento registratosi subito dopo il terremoto, che avrà inevitabilmente conseguenze sulla spesa pubblica e sulla capacità del governo (e dei privati) di ridare una casa agli sfollati nel più breve tempo possibile.

Ma le conseguenze del terremoto sono anche sociali e a farne le spese sono prima di tutto i migranti. Il sentimento xenofobo è da tempo in crescita in Turchia e alcuni esponenti dell’ultranazionalismo hanno ben presto accusato i siriani di atti di violenza e di saccheggio, aizzando la popolazione locale contro di loro. L’area colpita dal terremoto ospita quasi due milioni di rifugiati provenienti dalla Siria, il che aiuta la diffusione di notizie false ai danni di chi ha ugualmente perso tutto a causa del sisma, oltre che di una guerra che va avanti da più di dieci anni.

A causa del clima di tensione venutosi a creare, i siriani stanno iniziando a spostarsi verso altre aree del Paese ma, come riportato da Middle East Eye, in molti potrebbero dirigersi verso l’Europa o decidere di tornare in Siria. La precarietà delle condizioni di vita in quest’ultimo Stato ha finora limitato il rimpatrio volontario dei profughi, ma la vita in Turchia sta diventando sempre più difficile per i siriani. Di certo Erdogan trarrebbe vantaggio a livello politico da un simile scenario, anche considerando che il progetto di rimpatriare i rifugiati nel Nord della Siria è ormai sfumato.

Nella Turchia post terremoto, dunque, le storture di un Paese sempre più autocratico stanno emergendo con prepotenza, tra repressione del dissenso, censura dei media e odio razziale.

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