Solidarietà intermittente L’Europa soccorre Siria e Turchia mentre discute come blindare le sue frontiere ai migranti

Al Consiglio straordinario una cordata inusuale di nazioni chiede una stretta contro gli ingressi irregolari, per incassare vantaggi domestici invece di raggiungere compromessi quantomai necessari

Le macerie in Siria dopo il terremoto

L’Europa corre in aiuto di un pezzo di mondo che ha troppo a lungo ignorato. La mobilitazione dopo il terremoto è quella richiesta da un dramma immane, che trova un termine di paragone – nelle parole del presidente Recep Tayyip Erdoğan – solo in quelli dello scorso secolo. L’epicentro, tra Turchia e Siria, localizza una tragedia nella tragedia: il sisma ha violentato una terra di accampamenti e profughi, stravolta da dodici anni di guerra civile; oggi, dal gelo e dal colera.

Le macerie, l’affannosa e a volte futile ricerca dei corpi, hanno ricordato a chi vive nei campi del lato siriano di questa catastrofe i bombardamenti subiti per anni. Quella del despota Bashar al-Assad è stata una “vittoria” cimiteriale, sponsorizzata da Vladimir Putin. Da settentrione avevano ripreso i raid le unità di Erdoğan, a cui abbiamo esternalizzato lo sbarramento ai flussi migratori come avevamo appaltato ai curdi – lì nel mezzo – la sconfitta degli islamisti di Daesh, di cui restano cellule nella regione. Salvo dimenticarci di loro, mentre al «sultano» corrispondevamo sei miliardi di euro per i suoi servigi di guardianìa.

Un’umanità sospesa e dimenticata. Avrebbe diritto a un corridoio sicuro verso l’Unione che da anni distoglie lo sguardo. Il termine è ingannevole. Sappiamo benissimo cosa succede, quant’è grave la situazione, ma la escludiamo dal campo visivo delle nostre priorità: la rimuoviamo dalla nostra coscienza. Una componente significativa della popolazione della città turca di Gaziantep – la metà su un milione di abitanti, secondo France24 – è fatta da rifugiati. Attorno ad Aleppo e Idlib, in Siria, gravitano tre dei sei milioni di sfollati interni del Paese.

Chi vive in una tenda si è considerato fortunato, perché più solida delle case precarie e dei ripari temporanei. Sono venute giù come costruzioni Lego «colpite da una pallonata» (l’immagine è di Daniele Raineri su Repubblica). Un paradosso atroce, dentro una classifica che non ha senso fare. Traboccano gli ospedali già al collasso, manca la benzina per generare corrente, riscaldarsi. Il terremoto come secondo martirio di città già morte.

La «geopolitica dell’emergenza», l’ha chiamata in un post su Instagram il giornalista Valerio Nicolosi, ha messo in pausa le tensioni. Tre le prime a muoversi c’è stata la Grecia, rivale di sempre di Ankara che rasenta l’escalation sul mar Egeo. Come scrive oggi Roberta Cavaglià su Linkiesta, il disgelo diplomatico non è però destinato a durare: la retorica del «nemico» di là del mare fa comodo, in un anno di doppie elezioni. Aiuti e soccorsi da Israele, dalla Russia e dalla Nato. In totale più di quarantacinque nazioni hanno offerto alla Turchia una qualche forma di assistenza.

Dall’Europa, una staffetta di solidarietà. Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Francia, Grecia appunto, Ungheria, Malta, Olanda, Polonia, Romania, Italia, Spagna, Slovacchia. L’Ue ha messo a disposizione i satelliti Copernicus per monitorare dall’alto e indirizzare i soccorsi. La presidenza svedese ha attivato il meccanismo di Risposta integrata alle crisi, per coordinare lo sforzo dei Ventisette. Alcuni dei Paesi di questa lista sono gli stessi che spingono per chiudere le frontiere ai migranti, tornati sull’agenda del Consiglio straordinario di oggi e domani.

Fortezza Europa. Al summit, numerosi Stati si presentano per incassare vantaggi domestici più che raggiungere compromessi quantomai necessari. Un ritorno al passato, ai veti a perdere e agli egoismi incrociati. Le nazioni dell’Europa centro-orientale, in prima linea nell’accoglienza degli ucraini, si sono sdegnosamente opposte alla redistribuzione di rifugiati tra il 2015 e il 2016. Ora una coalizione chiede muri. Su tutti, Austria e Olanda, dopo aver bloccato l’ingresso nell’area Schengen di Bulgaria e Romania ritenendole non all’altezza di presidiare i confini. Meglio la collaudata brutalità della polizia croata, evidentemente.

Nuove barriere. Il premier olandese Mark Rutte ha bisogno di slogan per le elezioni locali di questa primavera; il cancelliere austriaco Karl Nehammer vuole finanziare una recinzione al confine tra Bulgaria e Turchia. A invocare più fermezza «contro l’immigrazione irregolare» è un inusuale allineamento tra Nord, Baltici e Mediterraneo, che include Danimarca, Lettonia e Lituania, Grecia e Malta. Sono divisi sulle regole di Dublino, sono uniti nel volere rimpatri, magari firmando assegni in bianco a Frontex, che avvisa nella sua «analisi dei rischi» sull’aumento della pressione migratoria fino al 2032.

Il nuovo Pact on Migration and Asylum è fermo. Lanciato dalla Commissione nel 2020, le nuove tempistiche rasentano la fine del mandato: il 2024. La presidente Ursula von der Leyen, recentemente, s’è mostrata possibilista sull’idea di finanziare la costruzione di sbarramenti sulle frontiere esterne: forse con i soldi europei non si pagheranno muri fisici, ma tutto il resto perché i confini siano ancora più impenetrabili. Una nuova rotta, questa, che giocoforza piace molto al governo italiano di Giorgia Meloni.

L’intermittenza della solidarietà funziona così: mandiamo un Sms, osserviamo un minuto di silenzio sui social, ma solo uno – eh – ché è la settimana santa di Sanremo. Gli aiuti internazionali faticano a raggiungere la Siria, vanno protetti dalle mani insanguinate di Assad. Non abbiamo ancora un’idea del numero reale di vittime, ma contabilizziamo al dettaglio gli ascolti del Festival. Le voci da sotto le macerie sono sempre più flebili, però forse non le avremmo sentite lo stesso: sono già rumore di fondo al televisore. La nostra coscienza è come il telecomando. Selettiva.

Questo articolo è tratto dalla newsletter di “Linkiesta europea”, ci si iscrive qui.

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