Le città sono caotiche, sono pericolose, sono meno pericolose di quanto si pensi, sono i luoghi delle opportunità, sono posti dove non succede mai nulla di importante, sono peggio dei borghi, alla fine sono come dei paesi. Sono vive, sono morte. Questa proliferazione avviene, innanzitutto, perché le città sono spazi in cui le avventure umane si concentrano con le massime densità e complessità: sono luoghi dell’esperienza individuale e collettiva, che producono tante immagini di sé stesse quante sono le forme di queste esperienze nel tempo. Sono quindi inevitabilmente zone del divenire, che mantengono caratteristiche distintive e che pure non ritroviamo mai uguali. Anche per questo, le città sono spazi dei simboli dove si stratificano significati, di volta in volta personali e condivisi, espliciti e misteriosi. Tra i mattoni, le piazze, le strade e le aiuole si annidano frammenti di immaginario – provenienti da conversazioni, libri, film, fumetti, musiche, sogni – che agiscono su di noi attraverso traiettorie oblique e giochi di sponda. Le città sono però anche i luoghi della politica e delle sue molte declinazioni possibili. Gestione della vita pubblica e governo delle risorse. Sistema di trasparenze, di opacità e di specchi. Arena delle necessità e dei desideri, dei conflitti e delle alleanze.
Le città – insomma – sono qualcosa di troppo grande, denso e stratificato per essere abbracciato con uno sguardo solo. Ed è giusto che sia così perché, in fin dei conti, scrivendone e leggendone in continuazione costruiamo sempre nuovi strumenti per provare a capire chi siamo noi stessi, e cosa significa il nostro passaggio in questa vita. Non scrivo che le città sono “grandi” facendo riferimento alla loro estensione. L’essere città è innanzitutto – almeno in Europa – una qualità che si trova in modi e misure diverse in luoghi molto diversi. Non che le dimensioni non contino. Ma ciò che è davvero rilevante è come i tre piani – quello esperienziale, quella simbolico e quello politico – si stratifichino producendo densità e complessità. E così un paese può essere più urbano di una fetta di hinterland; un centro storico desertificato può esserlo meno di una periferia vitale. Per questo, nelle pagine che seguono troverete molte riflessioni relative a città medie e grandi in Italia – da Bologna a Bari, da Roma a Torino – e in Europa – come Amsterdam, Barcellona e Berlino. Ma anche considerazioni che hanno a che fare con le piccole città – come Grosseto o Biella – e le aree metropolitane estese, che a volte facciamo fatica a riconoscere come propriamente urbane.
Ad ogni modo, il libro che vi trovate tra le mani non vuole contribuire al dibattito infinito sulla definizione delle caratteristiche urbane. L’ho scritto, invece, per tre motivi principali. Il primo è che le città sono sempre di più il luogo delle disuguaglianze, e per affrontarle collettivamente c’è bisogno di costruire un dibattito diffuso mettendo in circolazione presso pubblici più ampi le riflessioni critiche elaborate in discipline specialistiche diverse. È per questo che la prima parte, “Le città degli specchi”, si concentra sulle forze principali che hanno dato forma alle città negli ultimi decenni, in un gioco di rifrazioni in cui i simboli si sono legati al cemento e all’asfalto. E così la cultura, la creatività e gli immaginari sono stati messi a regime nella finanziarizzazione dello spazio urbano, nella gentrificazione e nella turistificazione, generando nuovi poteri e nuove ricchezze, nuove disuguaglianze e nuove ingiustizie.
Il secondo motivo ha a che fare con la serie di shock urbani iniziati con l’arrivo della Pandemia. Dall’inizio del 2020 si sono succeduti i lockdown, le ondate e le varianti. Una crisi economica sempre più incalzante. Le evidenze di un riscaldamento globale ormai impossibile da ignorare. Una crisi energetica che porta eco della guerra. Tutto quello che è successo ha costruito un’enorme distanza con le città che abitiamo, che ne siamo coscienti o meno. La seconda parte del libro, “Le città delle crepe”, si interroga su come costruiamo il senso del mondo a partire dalle interazioni quotidiane negli spazi urbani, e su come gli ultimi anni abbiano travolto le certezze di tutti, mettendo in discussione i gesti quotidiani, le nostre relazioni con i corpi, le abitazioni e gli spazi pubblici. Le crepe a cui fa riferimento sono quelle che hanno incrinato il senso condiviso della realtà, proiettandoci verso traiettorie individuali sempre più distanti e solitarie.
Ho scritto questo libro – infine – perché c’è un sacco di lavoro da fare per costruire nuovi legami di senso tra le persone e le città. Negli ultimi dieci anni ho trascorso un sacco di tempo a girare per l’Italia, collaborando con attivisti, artisti e operatori culturali: i protagonisti di un patrimonio vivo, diffuso e capillare che si interroga sulle grammatiche del collettivo e sui nostri futuri possibili. Ponendo domande radicali. Sperimentando immaginari e rituali. Trasformando le istituzioni, e inventandone di nuove. La terza parte,“Le città dei vortici”, è un viaggio in questi mondi intrapreso con due obiettivi. Il primo è quello di farli conoscere anche ai non addetti ai lavori, mostrando come le esperienze culturali di prossimità non siano eccezioni ma facciano – al contrario – parte di una traiettoria importante, con una storia e – soprattutto – con un futuro. Il secondo è quello di costruire dei riferimenti per aiutare nella riflessione chi porta avanti queste pratiche nelle città, ogni giorno.
Specchi, crepe e vortici non sono rimandi analitici ma suggestioni, adottate nella convinzione che, per intravedere la complessità delle trasformazioni in cui siamo immersi, le impressioni a volte abbiano un peso determinante. Abitare il vortice – in questo senso – vuol dire innanzitutto imparare a abitare le città attraverso i simboli e le relazioni che nascono nella cultura di prossimità. Perché in questi tempi strani siamo travolti da accelerazioni, cambi di traiettoria e spostamenti di prospettiva continui. È sempre più difficile costruire una presa condivisa sulla realtà, e le turbolenze non sono certo destinate a quietarsi. Quello che possiamo fare è imparare ad essere leggeri nel cercare la profondità – o profondi nel cercare la leggerezza – fluttuando tra gorghi e mulinelli di senso, intessendo nuove alleanze, tracciando e mantenendo comunque la rotta.
Da “Abitare il vortice” (Utet), di Brertam Niessem, p. 256, 18€