«Hanno del tutto torto, ma sono comunque brava gente, sono comunque i nostri vicini». Quando Harper Lee pubblica “Il buio oltre la siepe”, ha trentaquattro anni e realizza il sogno che nel secolo successivo appartiene ancora a chiunque di mestiere scriva: non dover mai più scrivere una riga.
È il 1960 e, nell’America ancora segregazionista, l’avvocato bianco che nell’America della Grande Depressione difende il nero ingiustamente accusato di stupro diventa subito Pulitzer, e libro adottato nelle scuole, e soprattutto Atticus Finch al cinema ha la faccia di Gregory Peck.
Quando decide di adattare il grande romanzo americano par excellence, Aaron Sorkin è già Aaron Sorkin – il drammaturgo moralista par excellence – e Scott Rudin non è ancora lo Scott Rudin di questo decennio – quello con cui nessuno vuole più avere a che fare perché maltrattava gli assistenti – ma è ancora quello da cui tutti vogliono farsi produrre.
Specialmente Sorkin, al quale Rudin aveva dato il consiglio risolutivo per “The Newsroom” (non può cominciare con lui minacciato ma non sappiamo per cosa, la scena in cui si fa dei nemici dobbiamo vederla: e quella scena fu, e fu «L’America non è un grande paese», e la gara delle tirate moraliste citabili fu vinta per sempre).
Anche per “Il buio oltre la siepe”, raccontava Sorkin nel 2018 quando debuttavano a Broadway, il consiglio di Rudin era stato illuminante. Atticus Finch non può essere un compatto blocco di marmo moralista, deve cambiare dall’inizio alla fine, dobbiamo vederlo diventare Atticus Finch, non può già esserlo.
Adesso arrivo al modo in cui Sorkin modernizza Finch, ma prima vorrei dirvi a cosa ho pensato per due ore e tre quarti in un teatro londinese. Ho pensato a tutti gli anni in cui ho sentito parlare di superiorità antropologica della sinistra. In cui da una parte c’erano quelli che accusavano – perdete perché vi sentite superiori – e dall’altra quelli che si difendevano: non è vero, sembriamo antipaticamente sprezzanti ma non lo siamo. In platea c’ero io che dicevo: ma, se uno non pensa che la sua morale sia superiore a quella altrui, cosa la perora a fare?
Se la destra non fosse convinta che ammazzare i feti sia un atto immorale, cosa si agiterebbe a fare contro l’aborto? Se la sinistra non fosse convinta che ammazzare i profughi sia più immorale che non riuscire a gestire in modo soddisfacente l’immigrazione, chi glielo farebbe fare di sbattersi a indignarsi per ogni naufragio?
E quindi sì, quando l’Atticus dell’inizio dice che pensarla diversamente non fa dei suoi compaesani dei mostri, una pensa ah vedi, quelle convergenze parallele d’una volta, mica come ora che linciamo la gente su Twitter se osa non aderire al millimetro alle nostre ideologie. Ma poi, quando Atticus inizia ad assomigliare alla descrizione che il cattivo dà di lui – «Questi intellettuali che ridono di noi alle loro cene in piedi» – è allora che in effetti è contemporaneo.
Per tutelare la contemporaneità dell’adattamento, che non credeva dovesse sembrare scritto negli anni Sessanta, Sorkin è dovuto andare in tribunale contro gli eredi di Harper Lee. Ha vinto, e ha potuto fare dell’Alabama degli anni Trenta un posto in cui si dice «dinner party» e «passive aggressive».
È a quel punto perfettamente congruo che Atticus Finch dica sprezzante all’ignorante proletario bianco che nessuno più vorrà avere a che fare con lui, non avrà più amici, «ti ostracizzeranno: cercalo sul vocabolario». Sembra una di quelle risposte che noialtri vagamente istruiti diamo a Vongola75 su Twitter, giacché la superiorità antropologica ognuno la esercita sugli analfabeti che può. Atticus ne esce come un eroe morale, noialtri come quelli che vengono ritenuti trionfanti da passanti dell’internet che in italiano usano il termine «blastare» (senza mai farsi venire il dubbio che ciò li renda analfabeti almeno quanto Vongola75).
Il fatto è che il mondo di oggi non è così diverso da quello in cui una giuria di analfabeti ma bianchi si rifiuta di credere alla mostruosità d’un padre analfabeta ma bianco e preferisce condannare un analfabeta ma nero. La linea di divisione non è più razziale ma di curva di stadio: tu sei tra quelli che si sentono moralmente superiori per questo o per quest’altro? Bisogna decidere, come ai matrimoni, in che banchi della chiesa mettersi a sedere: parenti dello sposo o della sposa? «Verrai giudicato da una giuria di non proprio tuoi pari», dice l’avvocato bianco all’imputato nero, ed è quel che accade in scala meno drammatica ogni giorno: tutti giudichiamo tutto senza avere quasi mai gli strumenti e gli elementi per farlo. Il mondo è una giuria né di pari né di giudici qualificati.
«Sono un avvocato di provincia che viene pagato in verdure», dice Finch, e viene da chiedersi se esistano ancora: oggi le uniche verdure che vede un avvocato bravo la metà di Finch sono quelle che mostra ai suoi follower perché Cortilia l’ha scritturato come testimonial.
In “Memo from David O. Selznick”, la raccolta delle lettere del produttore di “Via col vento”, la cosa più ripetuta ai duecentomila che si avvicendarono a tentare di sceneggiare Rhett e Rossella è: se adattate un libro che tutti hanno letto, non potete aggiungere nulla, sennò il lettore s’incazza.
In questo senso, sono contenta di ricordarmi pochissimo “Il buio oltre la siepe”, letto distrattamente e annoiandomi moltissimo. Per un americano è come per noi vedere un adattamento dei “Promessi sposi”: se mettono la pancetta confezionata al posto dei capponi, ci piglia un colpo. E invece, quando Matthew Modine (che fa Atticus a Londra: a New York era Jeff Daniels) dice al cattivo «non siete a corto di slogan accattivanti», e quello risponde «non siamo a corto di corda», io ho il lusso di non sapere se lo scambio stesse già nel romanzo, o se ce l’abbia messo Sorkin per ricordarci che, novant’anni fa, la realtà era già un embrione di Twitter.