Sono abbastanza vecchia da ricordarmi di quando il cinema era rilevante. Quando aspettavi che uscisse un film, e poi magari lo rivedevi più volte, e nonostante non avessi le scene sul telefono le mandavi comunque a memoria perché lo guardavi con attenzione, con ammirazione, con concentrazione.
Ho visto “Notting Hill” quattro volte di fila, restando a quattro spettacoli consecutivi al cinema Barberini. Avevo compiuto 27 anni da tre giorni, ero meno stronza di adesso (che se mi propongono di guardare un film doppiato reagisco come l’aristocratica cui il leghista porta la vaschetta di gelato in “1992”), e soprattutto non avevo internet sul cellulare. (Anche: le sale non ti facevano uscire a fine spettacolo e potevi vedere il film quattro volte con un biglietto solo).
Sembra una vita fa, ma il cinema è stato un’arte popolare. Adesso, quando uno che ringrazia per l’Oscar ringrazia il pubblico che è andato a vedere il film in sala, sembra di assistere allo spettacolo d’arte varia d’un maniscalco che ringrazia tantissimo la clientela per aver scelto di spostarsi su carrozze a cavalli invece che con EasyJet.
L’altro giorno un amico m’ha detto d’aver visto, sul divano di casa sua, un film di cui gli avevo parlato malissimo. Mi ha detto che non l’aveva trovato poi così brutto, e poi ha aggiunto: «Ma tu l’hai visto al cinema: io se fossi stato al cinema avrei lanciato degli oggetti contro lo schermo». Eppure siamo tutti e due abbastanza vecchi da aver visto molti brutti film, al cinema, e da non essercene più di tanto scandalizzati. Non più di quanto accada oggi se mangiamo così così. Perché abbiamo attraversato decenni nei quali andare al cinema era normale quanto lo è oggi andare al ristorante.
Un mese fa c’è stato il solito pranzo dei candidati agli Oscar, a Los Angeles. Qualcuno, con lo strumento che ha ucciso il mondo che conoscevamo (un cellulare con telecamera), ha filmato Steven Spielberg che abbracciava Tom Cruise e gli diceva «Hai salvato il culo a Hollywood, e potresti aver salvato con le tue sole forze la distribuzione in sala».
“Top Gun: Maverick” è uscito due anni dopo la data prevista perché Tom Cruise è Tom Cruise: uno con abbastanza potere personale da decidere che il suo film col cazzo che va sulle piattaforme, se c’è una pandemia si aspetta finché può uscire al cinema, ché lui vuole che il suo filmone di decolli aerei e inseguimenti e feticismo della nostra giovinezza la gente lo veda in sala.
E, siccome il potere contrattuale di Tom Cruise te lo costruisci avendo la faccia di Tom Cruise, il sorriso di Tom Cruise, l’irresistibilità di Tom Cruise, la gente in sala ci va: quello per cui Spielberg lo ringrazia, in quel video, è un miliardo e mezzo di dollari d’incasso in tutto il mondo; quello per cui Spielberg lo ringrazia è aver dimostrato che ci sono ancora cose per cui facciamo lo sforzo novecentesco di andare a sederci su poltrone più scomode del nostro divano, in mezzo a sconosciuti che rumoreggiano più dei nostri familiari, mangiando popcorn assurdamente costosi.
Oppure no. Oppure “Maverick” è stato un’eccezione, un piccolo miracolo d’immersione dissimulata nel come eravamo, un prodotto per vegliarde nostalgiche ma anche per ragazzini abituati a guardare i supereroi, una di quelle cose che riescono solo a Tom Cruise (io vorrei moltissimo vedere il nuovo film con Favino di cui mi parlano tutti benissimo, ma andare al cinema mi sembra uno sforzo inconcepibile; eppure ci sono andata per “Maverick”, eppure ci andrò quando arriva il prossimo “Mission: Impossible”: forse il cinema in sala è ormai un parco giochi a esclusivo uso del signor Cruise).
È difficile spiegarlo a chi non c’era, ma c’è stato un tempo in cui “I Fabelman” – il film di Spielberg che ha avuto incassi irrisori e che domenica sera non ha preso neanche un Oscar – sarebbe stato il film che andavamo tutti a vedere al cinema. Perché c’è stato un tempo in cui al cinema andavano gli adulti, e quelle storie che ora vanno su Netflix – perché i consumi culturali delle famiglie ora li decidono i puccettoni e quindi figuriamoci se una famiglia spende soldi per un film senza spari e inseguimenti – quelle storie lì erano popolari.
Oggi che il mondo è a misura di tredicenni (non necessariamente anagrafici: i più gravi sono i tredicenni mentali), se dici che il film di Spielberg è un film sul talento e sulla disciplina, sull’ossessione creativa e sulla fatica di avere genitori che vogliono essere perdonati, sull’amicizia e sull’adulterio, sull’essere ebrei nell’America degli anni Sessanta e sul capire che non si diventa grandi con le coccole ma con i «Lèvati dai coglioni», se provi a dirlo il tredicenne a metà frase già non ti sta più ascoltando e s’è messo a guardare un video su TikTok, figuriamoci venire al cinema.
«Sarebbe questo il film che Pauline Kael ha definito “uno dei più fenomenali esordi nella storia del cinema”? Kael e qualche altro critico credulone probabilmente subiscono l’egemonia della giovinezza di Spielberg, e della sua disinvoltura tecnica. Ma non sanno che centinaia di studenti delle scuole di cinema possono fornire un prodotto così, da mestieranti? Questi giovani fissati spesso hanno avuto la loro prima telecamera a tre anni, e sanno tutto quel che c’è da sapere delle lenti, dei filtri, del colore, della solarizzazione. Sfortunatamente, sono ignoranti riguardo a tutto il resto, non hanno avuto tempo di leggere un libro, sono illusionisti della tecnica con un cervello grande come una lenticchia».
Nei momenti di sconforto, sempre più frequenti, io ripenso al New York Times che, quarantanove anni fa, s’indigna perché Pauline Kael – la più importante critica della storia del cinema – ha lodato “Sugarland Express”; peraltro l’ha lodato dicendo che non sa se Spielberg «abbia un pensiero, o anche solo una forte personalità, ma ci sono un sacco di bravi registi che mica sono mai stati profondi».
Ripenso al New York Times che parla del ventisettenne Spielberg come io parlo dei tredicenni su TikTok, e mi assale il terrore che tra quarantanove anni qualcuno mi rilegga e dica: ma tu guarda ’sta vecchia trombona. Poi mi consolo pensando che tra quarantanove anni sarò morta e potranno fare della mia reputazione ciò che vogliono.
Domenica notte ho tenuto accesi gli Oscar perché stavo scrivendo, ed erano abbastanza irrilevanti da farmi da sottofondo, abbastanza noiosi da non distrarmi. L’ultima volta che li avevo guardati, stando sveglia apposta, era dodici anni fa, quando la gara era tra un film sentimentale e ricattatorio come “Il discorso del re”, e il miglior film di questo secolo, “The Social Network”. Tra la stucchevolezza e lo scetticismo, ma comunque tra due filmoni popolari. Se fosse andata nello stesso modo, domenica la gara sarebbe stata tra “Maverick” e “I Fabelman”.
E invece non è andata così, e il primo a capirlo è Steven Spielberg, che conosce le regole di Hollywood e applaudiva col sorriso soddisfatto di chi non s’è mai sentito in gara quando, invece di premiare lo stupendissimo Judd Hirsch che faceva il suo prozio matto (non c’è saga familiare senza zii matti), o Michelle Williams che faceva sua madre, Hollywood faceva Hollywood.
Premiando un’asiatica che poteva dire, come una qualunque Ferragni, che l’Oscar lo accettava non per appagare le sue ambizioni o far salire il suo cachet, ma perché le bambine a casa sapessero che un’asiatica poteva vincere. Mai per affermazione personale, sempre per fare da esempio alla plebe: un secolo che ha preso Maria Antonietta e l’ha ripassata in un brodo di psicoterapia.
Invece è andata che ora possiamo dire che Hollywood non è razzista perché un film di asiatici ha preso sei dei sette Oscar principali, e l’equità sociale è ristabilita; poi pazienza se di quel film lì non frega niente a nessuno e il cinema è morto: non si può avere tutto.