«Un saggio prende solo decisioni che portano benessere al mondo, altrimenti non sarebbe saggio», si legge nel libro che gli italiani più hanno comprato la settimana scorsa, quello che sugli inserti culturali del sabato troverete in cima alla classifica di vendite.
Se anche voi, come me, vi chiedete «e chi diavolo è Gianluca Gotto», sappiate che io sono stata così poco saggia da andare su Google, e da passare dieci minuti a pensare: man bun.
Gli americani, che inventando parole inventano realtà, per gli uomini che tengono i capelli lunghi come le donne e li raccolgono come le donne hanno inventato una precisa dicitura, ché quella mica è una coda di cavallo: è la coda di cavallo che si fa un maschio. Man bun. Non è una pettinatura: è un carattere.
(Spero vorrà arrivare qualcuno a precisare che in realtà non è proprio una coda di cavallo, essendo arrotolata su sé stessa: è quel che a Bologna si chiama «il concio», a Los Angeles bun, e altrove non so).
Insomma Gianluca Gotto è un uomo coi capelli raccolti, ci dice la foto che come prima cosa Google ci mostra. È nato nel 1990 e, dice Google, è un nomade digitale. Che vent’anni fa era uno che aveva un computer portatile e scriveva a casa della nonna. Oggi probabilmente pure, ma potrebbe persino essere uno che s’è comprato un wifi da viaggio.
All’inizio del libro che dodicimilasettecentosettantasei italiani – che vorrei conoscere e studiare uno per uno – hanno comprato la scorsa settimana, Gotto ha la dengue, una febbre tropicale (non poteva essere un malanno di quelli che ci sono da noi: ha una cartella clinica da nomade). Sta per morire, poi non muore, e ciò fa di lui il Frate Indovino dei manuali di autoaiuto: uno che capisce che la malattia è un regalo, che gli ha insegnato molto, che meno male che è stato per morire.
Prima della grande folgorazione e di ringraziare la febbre come Marie Kondo ringraziava le magliette che stava per buttare, gli prescrivono uno psicofarmaco, e lui non lo compra non perché è in Thailandia e insomma comprereste le goccine in vendita in un posto in cui dovete stare attenti a non bere l’acqua di rubinetto: non lo compra perché capisce che deve vivere fino in fondo il suo malessere.
Alla seconda pagina del libro più venduto in Italia la scorsa settimana, si cita Nietzsche. Se il vostro editor vi ha sconsigliato citazioni colte altrimenti poi non vi compra nessuno, imparate da Gotto a bacioperuginizzare qualunque riferimento: che avete guardato l’abisso e lui ha guardato voi lo capisce anche il pubblico di Barbara D’Urso (la comare Cozzolino, che è il modo in cui la D’Urso cita senza citarla la casalinga di Voghera).
Insomma Gotto rifiuta lo psicofarmaco, e il fatto che il suo libro sia primo in classifica mentre il marito della Ferragni racconta d’aver smesso uno (lo stesso?) psicofarmaco, e che entrambi usino la stessa parola – scorciatoia – per gli psicofarmaci che hanno rifiutato, questi due fatti cosa ci dicono? Che forse va trovata una via di mezzo tra l’ipermedicalizzazione degli americani e il mito del buon selvaggio che rifiuta la chimica italiano? Che la divulgazione in mano agli analfabeti è persino più pericolosa della divulgazione in mano ai docenti universitari? Che «rifiuto lo psicofarmaco e vado verso il mio destino» sembra la prima scena d’un film?
Io, come prima cosa, ho pensato «sembra uno di quei film che faceva Julia Roberts quando aveva l’esaurimento», e giuro che solo dopo averlo pensato ho scoperto che il sito di Gotto si chiama Mangia Vivi Viaggia, che immagino sia un omaggio a Mangia, Prega, Ama, la versione cinematografica del nomadismo motivazionale in cui Julia Roberts è alla ricerca di sé stessa proprio come Gotto.
«Mia nonna ha incontrato mia figlia. L’ha presa in braccio, ci ha giocato, le ha sorriso. Le ha sussurrato qualcosa all’orecchio. Nonostante gli ottantotto anni di differenza, c’era qualcosa di profondamente simile in loro. Erano ai due estremi del fiume della vita: una alla sorgente, l’altra alla foce. Eppure sembravano fatte della stessa materia. Della stessa acqua. Vederle insieme è stato uno dei momenti più belli della mia vita. La sera successiva, mia nonna è morta». Naturalmente la nonna di Gotto è morta ma non è morta: nelle trecento e spicci pagine tra lo psicofarmaco mancato e qui, Gotto è diventato buddista, e il buddismo gli ha insegnato «che da qualcuno non si diventa nessuno: si diventa tutto».
Quindi la settimana scorsa quasi tredicimila italiani hanno pensato sai che voglio fare, voglio proprio leggere un libro, come si faceva una volta. E si sono detti no, non compro Piccolo, che poi mi diverto, non compro il principe Harry, che poi so di cosa parlare in ufficio, non compro Cognetti, che ho visto il film. Hanno pensato di comprare un libro in cui «una zanzara mi si è posata sulla pelle e nel prendersi un po’ del mio sangue mi ha donato qualcosa che inizialmente ho odiato, contro cui ho poi lottato e di cui ora sono semplicemente grato: un’opportunità».
Quasi tredicimila italiani hanno deciso che quel che volevano, in cambio di diciannove euro e mezzo, era un tizio che si presentasse come in un gruppo di mamme su Facebook, dicendo che «il viaggio più importante è quello che facciamo dentro noi stessi», un tizio con la coda che sapesse fare d’una zanzara un’opportunità, un tizio senza qualità che fosse in grado di fare loro da specchio, invece di inibirli col fatto che lui sa scrivere e loro no.
D’altra parte il libro s’intitola “Profondo come il mare, leggero come il cielo”, e il riferimento non può che essere alla commozione di “Com’è profondo il mare”, quella che «mise d’accordo tutti, i belli coi brutti, con qualche svantaggio per i brutti che si videro consegnare un pezzo di specchio così da potersi guardare».