Per Ubs – la prima società svizzera per servizi finanziari – l’acquisto di Credit Suisse rappresenta un affare estremamente vantaggioso. L’operazione, già decisa, si concretizzerà entro i prossimi tre mesi e costerà al colosso elvetico solo tre miliardi di franchi svizzeri, pari a circa 3,35 miliardi di euro. Questo prezzo molto conveniente, concordato sotto la supervisione della Banca centrale svizzera, permetterà a Ubs di acquisire il suo principale concorrente interno, le cui azioni hanno subito un calo del settanta per cento nell’ultimo anno chiudendo con la perdita più grande della banca dal 2008, pari a 7,3 miliardi di dollari. Questo scenario apre diversi spunti interessanti.
Il primo è che la nuova grande istituzione finanziaria che si formerà avrà ben centoventimila dipendenti e risulterà di molto sproporzionata rispetto all’istituto di vigilanza Finma, il quale ha il compito di sorvegliare su di essa e sulle altre duecentoquaranta banche svizzere. Nonostante si preveda un ridimensionamento della banca nei prossimi anni, rimarrà comunque un istituto troppo grande per il Paese in cui avrà sede e dove svolgerà gran parte del business. Questa situazione comporta il rischio che l’istituzione diventi troppo grande per poter fallire, ma anche troppo grande per poter essere salvata, come avvenuto nel caso di Credit Suisse.
In secondo luogo è interessante notare che quello che sta per nascere sarà una concentrazione di potere finanziario senza precedenti. La nuova entità avrà nella Confederazione una quota di mercato pari a due terzi dell’intero settore delle banche significative. Nessuna autorità antitrust di un Paese democratico accetterebbe il formarsi di un potere economico così ampio nelle mani di una sola impresa. Quanto poco convenga concentrare tutto il rischio in un solo istituto lo sa benissimo il contadino che non mette mai tutte le uova nella stessa cesta. Tant’è, ma le condizioni con cui è stato negoziata la fusione fra i due colossi del credito di Zurigo erano tutto, salvo che normali: senza un accordo entro lo scorso weekend, Credit Suisse avrebbe rischiato di prendere la strada di Silicon Valley Bank o di Lehman Brothers e le ricadute sarebbero state incalcolabili.
Nascono da qui le forzature di questi giorni da parte delle autorità svizzere che hanno spinto le banche ad aggirare le regole che loro stesse avevano creato. La prima volta quando hanno imposto la vendita forzata di Credit Suisse senza passare dal voto degli azionisti; la seconda quando hanno scelto di privilegiare il salvataggio degli azionisti a quello degli obbligazionisti, sebbene titolari dei bond più rischiosi: gli ormai noti additional Tier 1. Questo non è un fatto da poco. La creazione di questo precedente finora mai accaduto, infatti, agita le borse di tutto il mondo e minaccia un mercato da duecentocinquanta miliardi di dollari a livello globale, già in crisi di fiducia.
Per questo motivo le autorità europee si sono subito affrettate a dissociarsi dalla condotta della Banca centrale svizzera ribadendo che in Unione europea l’ordine gerarchico in cui azionisti e obbligazionisti di una banca sono chiamati a contribuire in caso di salvataggio pubblico rimarrà quello di sempre. «Gli strumenti di capitale primario (Cet1) sono i primi ad assorbire le perdite e solo dopo il loro completo uso si richiede la svalutazione» dei bond At1. Questo approccio è stato «costantemente applicato in passato» e «continuerà a guidare le azioni dell’Srb e della vigilanza bancaria negli interventi di crisi», hanno scritto in una nota congiunta la vigilanza Bce, l’Eba e il Comitato di Risoluzione unico.
La stessa presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde, in audizione in Commissione al Parlamento europeo, ha rassicurato i mercati: la Banca centrale europea «è pienamente attrezzata per fornire, se necessario, un sostegno di liquidità al sistema finanziario dell’area dell’euro e per preservare la regolare trasmissione della politica monetaria». E ha aggiunto: «Il settore bancario dell’area euro è resiliente, con forti posizioni di capitale e liquidità».
Anche Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia ha ribadito il concetto ma sottolineando che «il problema per noi è sostanzialmente un problema di rischi di contagio». Quindi bisogna stare estremamente attenti agli «sviluppi finanziari che si sono verificati fuori dall’area euro» che «possono avere un impatto e rappresentano un ulteriore elemento di incertezza. Attenzione, allora. Perché quello della fiducia negli istituti bancari e negli enti di vigilanza è un aspetto fondamentale, il cardine su cui si regge tutto l’edificio economico mondiale. Ma come ricorda lo stesso Visco «la fiducia è qualcosa di molto impalpabile», un’entità che si espande o viene meno tutta d’un tratto, quasi come un virus.
Altra situazione problematica, che contribuisce a scalfire la fiducia dei mercati, è che Finma, l’autorità di vigilanza svizzera, non ha spiegato in maniera trasparente il motivo per cui i principali azionisti (Saudi National Bank e Qatar Authority) non sono stati toccati da questo rischiato fallimento. La prima speculazione che viene in mente osservando quello che succede è che la motivazione di privilegiare gli azionisti sauditi abbia una connessione con la politica internazionale e quindi con la necessità è di mantenere intatti i rapporti con i Paesi interessati. Chiaramente questo atteggiamento non piace per nulla al mercato che si vede scavalcato per ragioni prettamente politiche.
In aggiunta a tutto questo, alcuni osservatori hanno fatto notare ci possa essere un interesse da parte di Ubs nel mantenere una serie di azionisti di Credit Suisse nel nuovo conglomerato. Questo perché l’azienda non sarebbe stata in grado, da sola, di risollevare il capitale finanziario come già richiesto dalle autorità di vigilanza.
Diverse ombre circondano il sistema bancario elvetico. Mesi fa, ad esempio, l’Associazione svizzera dei banchieri ha rivelato a Reuters che i conti bancari svizzeri intestati a cittadini russi ammontano a un valore compreso tra i centocinquanta e i duecento miliardi di euro, i cui beneficiari non sono noti. Solo nove miliardi di euro delle fortune congelate sono stati identificati, il resto è nelle mani di ignoti. Inoltre, a novembre, il tribunale di Zurigo ha permesso il rimborso a tre oligarchi multati per molti milioni di euro, in possesso di fondi di dubbia provenienza.