EcocidioLa crisi ecologica è il processo di adattamento della biosfera all’attività umana

In “Ecopessimismo” (Piano B) il filosofo Claudio Kulesko spiega che la continuità tra natura e cultura rende i crimini ambientali un attacco al nostro futuro, perché ogni organismo è costretto a fare i conti con una quantità scarsa di risorse

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La continuità tra natura e cultura fa sì che i crimini compiuti dalla nostra specie contro se stessa e ogni altro essere vivente, facciano logicamente parte del medesimo diagramma evolutivo. La lancia, la ruota, la lavorazione del metallo, le città, le automobili, i computer, le miriadi di varietà canine selezionate dalla mano umana, le armi atomiche, Wall Street, il complesso industriale e le emissioni di anidride carbonica: ciascuna di queste cose, per quanto recente nell’ordine temporale dell’universo e del nostro stesso pianeta, sarebbe parte integrante della natura.

Ciò comporta anche anche una naturalizzazione del capitalismo, dello sfruttamento dell’umano sull’umano, della guerra e dell’agro-zootecnia intensiva. Tale deriva, tuttavia, va inquadrata all’interno di una più vasta cornice evoluzionistica. Il fatto che i granchi possiedano delle chele e i cervi dei palchi di corna, di fatto, non significa che essi non siano stati, non avrebbero potuto essere o non possano divenire, in un lontano futuro, qualcosa di totalmente diverso da ciò che sono.

Come insegna la teoria evoluzionistica darwiniana, anatomie, comportamenti, relazioni e facoltà metaboliche – sarebbe a dire l’intera configurazione organismica di un qualsiasi essere vivente – sono soggetti a processi di mutazione e adattamento costante. Nulla è ciò che è per via del tutto necessaria; tutto muta, sospinto da pressioni adattive e selettive, tra le quali spiccano gli effetti dell’attività umana.

Tra il 1952 e il 1972, in Gran Bretagna, le ricerche di Bernard Kettlewell sulla falena delle betulle dimostrarono che l’annerimento della corteccia degli alberi, causato dall’inquinamento atmosferico, aveva causato la selezione forzata degli esemplari dai colori più scuri.

Eppure, ogni organismo è costretto a fare i conti con le risorse a esso concesse dall’evoluzione – nonché con gli ambienti, gli ecosistemi, le prede e i predatori con i quali ha condiviso il suo lungo viaggio. La distinzione tra civiltà e wilderness è reale e pone problematiche concrete. Essa tuttavia non fa riferimento a una condizione ontologica o metafisica, ma a una differenza di fatto, ossia dotata di un puro senso relazionale, unicamente stabilito dagli attori in gioco – noi, con le nostre varietà addomesticate, e le specie che abitano gli ecosistemi selvaggi.

Ci conforta pensare alla sfera antropica come a una sorta di “gabbia di razionalità”, nella quale poter condurre indisturbati i nostri calcoli e i nostri progetti; ma tale immagine è costretta ad arretrare non appena l’artificiale si rivela nulla più che l’attribuzione, a una determinata specie animale, di tutta una serie di effetti ed epifenomeni derivanti da processi naturali. In tal senso, un cervo non può mai fare a meno di essere altro che un cervo; non può decidere di abbandonare il proprio palco di corna, o di sostituire i propri zoccoli con zampe dotate di artigli.

Allo stesso modo, Homo sapiens non può fare a meno di decorare i propri ambienti e artefatti, di riunirsi in gruppi, di elaborare teorie sul mondo, o di ideare e costruire strumenti tecnici. E ogni volta che tali gruppi, teorie e strumenti ci hanno condotti a una determinata conformazione ambientale e sociale, non abbiamo potuto fare altro che coglierne i frutti o pagarne le conseguenze. La crisi ecologica, da questa prospettiva, non sarebbe altro che lo stadio terminale di un processo di riadattamento della biosfera all’attività umana – o l’ultimo fotogramma prima di un evento di collasso biologico globale.

Ben al di là delle risibili teorie del negazionismo climatico, vi è un solo costrutto teorico in grado di approssimarsi a tale visione apocalittica. Si tratta del concetto, ideato dal fisico italiano Enrico Fermi, di “Grande Filtro” – un evento, vincolo o stato limite cosmologico, colpevole della scomparsa di qualsiasi ipotetica civiltà extraterrestre altamente avanzata.

Facendosi beffe del rasoio di Occam (nonché di ogni pudicizia filosofica), senza scomodare costanti cosmologiche, chine termodinamiche e guerre intergalattiche, la filosofia della redenzione di Horstmann e Mainländer offre una semplice spiegazione all’assenza dei nostri compagni di viaggio alieni. In ogni angolo dell’universo, la volontà-di-morire avrebbe segretamente guidato ogni specie e ogni civiltà. Miliardi di miliardi di individui si sarebbero dati la morte con le loro stesse mani, marciando di comune accordo verso l’estinzione (come predetto da Eduard Von Hartmann e Philip Mainländer), o cancellandosi dall’esistenza in modo violento (come profetizzato da Horstmann o Albert Caraco).

Da “Ecopessimismo. Sentieri nell’antropocene futuro” (Piano B) di Claudio Kulesko, p. 188, 15€

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