Eating (& thinking) differentTornare all’essenza (del gusto) per cambiare sguardo sul mondo

Dopo le mode, dopo la rincorsa all’originalità, dopo la ricerca del diverso a tutti i costi, oggi ciò che resta di un’esperienza gastronomica è il pensiero fondante su cui chi ha il coraggio di buttarsi in questo mondo riesce a costruire la sua vera celebrazione del cibo

Photo by Eric Garza. Pexels

In un’epoca in cui il panorama gastronomico offre di tutto e in cui gli annoiati palati occidentali possono ormai permettersi il lusso di scegliere, selezionare, sperimentare e cambiare gusti, distinguersi dal “mare magnum” della ristorazione sembra sempre più difficile.
Puntare sulla tradizione (fedelmente rispettata o orgogliosamente rivisitata) significa rivolgersi solo a una nicchia di pubblico (clienti Dop affezionati alle proprie origini, curiosi estemporanei e pochi palati raffinati in grado cogliere e apprezzare i riferimenti “storici” all’interno di un menu dalla veste originale), mentre gli sperimentalismi fini a sé stessi sono fuochi di paglia destinati a scomparire presto dall’orizzonte del “nuovo”. Ma allora come proporre un’idea di cucina attuale e al tempo stesso non superficiale ma di sostanza? È proprio impossibile combinare estro, estetica, gusto ed etica? Si può sopravvivere alle dinamiche del marketing, mantenendo una propria identità, senza confondere i clienti?

Basta rincorse: è ora di soffermarsi su ciò che conta
La gara all’originalità culinaria ha trasformato il mondo della ristorazione in un gigantesco buffet che rende difficile scegliere, in cui l’avventore rischia di perdersi tra esperienze gustative che spesso non riesce a comprendere, che non lo rispecchiano e non lo arricchiscono. Dall’altra parte (la parte della cucina) si finisce per cucinare qualcosa che “va di moda”, piuttosto che intraprendere un percorso in cui il cibo diventi la celebrazione di un’idea e un linguaggio per comunicarla. E anche mangiare si trasforma in un semplice lasciarsi condurre con spirito agnostico, alla scoperta di una creatività senza storia e (spesso) senza lungimiranza, che nasce e muore nell’intervallo di tempo tra il momento in cui ci si siede al tavolo e quello in cui si paga il conto. Ma allora ha ancora scopo “uscire a cena”?
Se così non fosse non avrebbe più senso fare ristorazione, si potrebbero chiudere gli istituti alberghieri, smantellare le cucine, abolire consorzi di tutela degli ingredienti e cancellare i disciplinari che proteggono alcune ricette e tecniche di lavorazione. Non avrebbe più utilità neppure scrivere di cibo e sarebbe l’Apocalisse del gusto. Ma non è ancora il caso di arrendersi!

Vedere “oltre” il piatto
Oggi per valorizzare e apprezzare davvero il cibo servono una nuova sensibilità e una maggiore competenza: tanto in cucina quanto a tavola. Non basta più maneggiare con perizia gli strumenti del mestiere (magari cimentandosi nell’uso di tecniche innovative come sottovuoto, fermentazione, affumicatura home made, distillazione, estrazione, essiccatura e così via) né essere aperti ad assaggiare ingredienti sconosciuti o presentati in modo inusuale. Quello che occorre è un pensiero di fondo, un’impalcatura etica che funga da struttura portante per il concetto di ristorazione portato avanti da chi decide di avventurarsi in questo inflazionato settore, e da guida per coloro che accettano di sedersi a un nuovo tavolo, desiderosi di emozionarsi ma anche di imparare, di cambiare punto di vista e al tempo stesso di riscoprirsi nelle storie dei piatti e di chi li ha preparati.
Ecco allora che il ristoratore, lo chef, il maître, il sommelier (ma anche il barman o la barlady, i camerieri e persino l’usciere o il guardarobiere) smettono di essere semplici “operatori del settore” al servizio del cliente, per trasformarsi negli artefici di una storia (una per ciascun cliente, una per ogni pranzo/cena, una per ogni voce del menu) e negli eroi di un’avventura unica ma ripetibile (basta ordinare una nuova portata o prenotare una nuova visita!).

Persone e portate: uno scambio di esperienze e punti di vista
A Milano, tra coloro che hanno fatto della ricerca dell’essenziale il proprio tratto caratteristico, c’è Linfa, un concept restaurant nuovo ma abbastanza longevo da dimostrare che il format (giocato su design, qualità, artigianalità italiana, creatività e innovazione) funziona. Manifesto del locale è proprio “eat different”, un invito che ribadisce l’idea stessa racchiusa nel nome sull’insegna (“Linfa” deriva dal latino “lympha”, ovvero “acqua”, l’elemento che fa schiudere i semi ed è alla base di ogni forma di vita) e testimonia l’impegno per una ristorazione responsabile, ecosostenibile e pensata come punto di partenza per una “rivoluzione delicata ma efficace”, capace di creare consapevolezza circa l’impatto che le scelte alimentari hanno sull’ecosistema e di promuovere un cambiamento culturale verso una maggiore sostenibilità. L’offerta è stagionale, di prossimità e rigorosamente plant-based (o “vegana” che dir si voglia), ma pensata per un pubblico onnivoro che, attraverso un menu gustoso e inclusivo da assaporare in un ambiente sostenibile a 360 gradi (dallo sfruttamento ottimale della luce naturale ai velluti di rivestimento delle sedute a zero impatto ambientale e cruelty-free), può davvero comprendere il punto di vista alla base di un’esperienza multisensoriale appagante ma “responsabile”.
Alla guida di tutto c’è l’owner, Edoardo Valsecchi, giovanissimo erede di esperienze manageriali maturate all’estero, che ha saputo riportare e nobilitare in Italia le scelte alimentari dettate dall’esigenza tra Emirati Arabi e Regno Unito, dove l’indisponibilità di ingredienti di origine animale di qualità lo ha spinto verso una dieta “veg”. Da qui è nata l’idea di portare in Italia una ristorazione basata su valori quali l’impegno, l’affidabilità, l’integrità, la passione e l’eccellenza (tanto nella scelta del food quanto nella relazione con l’ospite e con il prossimo) e di creare un punto di riferimento culinario che sia una destinazione enogastronomica per ogni preferenza e palato, un luogo in armonia con la natura che possa produrre un cambiamento positivo, in linea con la necessità di tutelare il pianeta.
Vanno in questa direzione anche le “serate a tema” che Linfa propone grazie alla partecipazione di chef più o meno noti che hanno fatto dell’eating different il punto focale della propria cucina. Un esempio? Le serate di Irene Volpe, concorrente finalista di “Masterchef 10” nel 2020, che da lì ha iniziato a costruire la “segnaletica della propria strada”, affrontando nuove esperienze professionali con curiosità, tenacia e sorriso, ma soprattutto impegnandosi a trasmettere un’idea di cucina come arte e amore per la vita in tutte le sue forme. Le sue ricette sono pagine di un diario: ognuna racconta un evento, un’emozione, un’esperienza o un esperimento, ma è sempre un modo per parlare di sé, e al tempo stesso suscitare riflessioni, evocare ricordi o stimolare nuovi modi di approcciarsi al cibo e al mondo che lo produce. L’obiettivo? Valorizzare ogni ingrediente in purezza e stimolare il cliente a riscoprire sapori autentici, non corrotti né corretti dagli artifici della ristorazione moderna.

Orti “onnivori” a filiera corta (e sensibile)
“Green” senza essere “veg”: è questo il format di Horteria, un ristorante giovane come i suoi proprietari (Giorgia Codato e Mauro Salerno) aperto quest’anno nel cuore di Milano, in aggiunta alla prima apertura a Mirano nel 2017, e che propone una cucina autentica e sperimentale al tempo stesso, in cui il cibo è utilizzato come strumento per dimostrare concretamente che un altro approccio alla terra (e alla Terra) è possibile. Come? Attraverso un’attenta selezione dei prodotti (a filiera cortissima perché forniti da Domus Salerno, l’azienda agricola di proprietà di Mauro, ospitata nel cuore più verde del Parco Nazionale del Cilento e gestita come un vero orto domestico) e la valorizzazione nel piatto dell’elemento vegetale, trattato con rispetto, sapienza e giocosità affinché, anche quanto si accompagna a ingredienti dal sapore importante, complesso e deciso, non si riduca mai a semplice “contorno”, ma mantenga un suo ruolo di coprotagonista di tutto rispetto. Il tutto avviene in un ambiente raccolto, pulito ma colorato (proprio come le portate servite al tavolo), in cui l’attenzione all’ecologia emerge dai materiali utilizzati per gli arredi (legno, argilla, corten) ma anche dalla carta dei vini e dal menu, ottenuti a partire dal riutilizzo di scarti alimentari (bucce d’uva la prima e scorze d’arancia il secondo).
Insomma, Horteria offre un’esperienza “differente” perché si basa su un’idea di ristorazione semplice: un’occasione per “stare bene” insieme al cibo e insieme a chi sa trattarlo con una sensibilità derivante da esperienze e sofferenze personali a esso legate, e affrontate con l’obiettivo di far nascere qualcosa di bello, buono, sano ed emozionante…. per sé e per tutti.

Ospitalità rivoluzionaria tra amore (in cucina) e psiche (nel menu)
A poco più di un anno dall’apertura, Borgia punta già a rivoluzionare i canoni dell’ospitalità attraverso una proposta che sovverte i ruoli e l’idea stessa di menu: non è più il cliente a dover chiedere, bensì il ristoratore a porre domande per intuire le esigenze di chi siede al tavolo e a impegnarsi per soddisfarle, con una degustazione di pietanze realizzata “a mano libera” e “su misura”, al momento. Il manifesto del locale (basato sulla massima di Feuerbach «Siamo ciò che mangiamo», ma si potrebbe a ragione aggiungere «…e ciò che cuciniamo») è trasformare la cena in un dialogo, un contatto basato sulla fiducia reciproca, un viaggio che arricchisca il palato e la mente, e soprattutto un percorso psicologico alla scoperta di sé stessi. È nato così Psyche, un menu “a sorpresa”, affidato all’empatia che si riesce a instaurare con il cliente e costruito direttamente in sala, in modo diverso per ciascun commensale, mixando tra una quarantina di portate disponibili.
Gli artefici di questo approccio totalmente innovativo (una vera e propria “sfida” per la cucina ma anche per l’avventore!) sono il titolare Edoardo Borgia (laureato in Scienze e tecniche psicologiche), il restaurant manager Tiziano Sotgia (a cui è affidato il compito di indagare i gusti di ogni cliente e cogliere le peculiarità che caratterizzano il suo rapporto emozionale con il cibo), e lo chef Giacomo Lovato, che guida le cucine e traduce in modo creativo i desideri consci e inconsci captati in sala, trasformandoli in piatti dai sapori intensi, con una forte impronta tradizionale e un’eco “montana” (da cui traspare la sua passione per la selvaggina). Il progetto di questo coraggioso triumvirato è un’offerta del tutto nuova, che si ispira alla gastrofisica (il complesso processo percettivo che sviluppano le persone nei confronti del cibo) e attrae i clienti con una proposta di fine dining che però li sgrava dall’incombenza di definire razionalmente ciò che “piace” o “non piace”, consentendogli piuttosto di abbandonarsi a un’esperienza unica che tocca le corde più profonde del loro conscio e inconscio, con ricordi, gusti e sentori che fanno parte della loro memoria. Perché ormai, in un pot-pourri di proposte gastronomiche che parlano solo di sé, la vera novità è rappresentata da una cucina disposta a rinunciare al monologo per porsi in ascolto, capace di mettere il cliente al centro del proprio racconto e di stimolarlo in maniera propositiva, guidandolo alla riscoperta di ciò che non ricorda di amare, di ciò che ancora non sa di apprezzare, di ciò che non osa chiedere, ma che fa inevitabilmente parte della sua identità e del modo in cui si relazione col mondo.

Meno critica gastronomica e più dialogo con la cucina
De gustibus non disputandum est… eppure… se ciascuno ha la propria “madeleine”, quel cibo di conforto che piace non tanto per il suo sapore quanto per i ricordi che rievoca e per i personaggi del passato che riesce a far temporaneamente rivivere, oggi chiunque può trovare nuovi spunti più attuali per emozionarsi a tavola. Anche in questo caso i piatti sono solo un pretesto, un incipit per addentrarsi in storie che hanno solo in parte a che fare con la cucina, e che vedono protagonisti eroi moderni, coraggiosi portavoce di un nuovo modo di intendere la ristorazione, l’accoglienza e l’impegno verso un’alimentazione più sostenibile, inclusiva, democratica e responsabile. Dunque, in un presente che ormai offre “tutto in qualsiasi momento”, vale la pena di soffermarsi su chi ha davvero qualcosa da dire: aprirsi al dialogo con gli interpreti di una ristorazione che ha voglia di spiegare la propria filosofia etica e di accogliere suggerimenti e idee dalla sala. Perché in fondo quello che tutti cerchiamo (spesso senza saperlo) è quel senso di “casa”, di “famiglia”, di “dialogo” e “protezione” che si crea attorno a una tavola imbandita, laddove qualcuno è disponibile a raccontare la fiaba di un ingrediente, il motivo per cui ha scelto di utilizzarlo, il fascino di costruire un piatto, il piacere di servirlo… Arrendiamoci all’evidenza: di fronte al cibo siamo ancora tutti bambini: amiamo essere presi per mano e siamo disposti a lasciarci affascinare dalla magia di ciò che mangiamo. Prima di dire che qualcosa “non ci piace” proviamo a buttare un occhio “dietro le quinte”, per capire cosa ci sta dietro. Come? Chiacchierando con gli chef, con i bartender, con il personale di sala… L’ingessatura non usa più: il dialogo è il nuovo galateo.

X