Parlare di femminismo nell’arte significa raccontare anche il lavoro di Maria Evelia Marmolejo, artista colombiana nata nel 1958 che da anni vive a New York. Il suo gesto performativo dalla fine degli anni Settanta è in fin dei conti un inno all’uguaglianza della specie umana: con forza, senza mai demordere, ha prestato il proprio corpo per denunciare machismo e sopraffazioni a cui sono sottoposte molte donne nel mondo. Non a caso Marmolejo è stata spesso definita come “artista performativa radicale”. Dietro questa etichetta scomoda c’è una storia – anche professionale – di soprusi e ingiustizie. Se è più facile, quasi mondano, fare provocazione nei Paesi occidentali, altro è ed è stato opporsi al mondo maschilista e machista dall’interno.
Maria Evelia Marmolejo ha pagato a caro prezzo questo suo essere una “donna contro”: per anni ciò che aveva fatto come artista è stato quasi rimosso dai libri di storia colombiani. Personaggio scomodo, hanno cercato di cancellarla dalla storia. Solo negli ultimi anni grazie al lavoro condotto da coraggiose curatrici femministe come Cecilia Fajardo-Hill e Andrea Giunta è stata “salvata” dall’anonimato. L’abbiamo incontrata e intervistata a Milano alla Galleria Prometeo di Ida Pisani in occasione della collettiva You owe me one curata da Elsa Barbieri. Il risultato è una generosa riflessione su arte, potere, femminismo e diritti LGBT ai giorni d’oggi.
Il tuo lavoro è a tratti violento come il mondo che hai vissuto e che rappresenti: non solo Colombia, ma anche la Spagna e gli Stati Uniti. Non sei stanca?
La storia umana è un ciclo di violenza che si ripete. Con il mio lavoro non posso che catturarlo. Con gli anni, dopo un lungo periodo di silenzio, in cui ho dovuto faticare per mantenere me stessa e mio figlio, ho dato vita alla performance 1 maggio 1981/1 febbraio 2013 fatta a Mandragoras Art Space. L.I.C., nel Queens. In questa performance raccontavo la violenza della guerra globale: ho riassunto un passato caotico e un presente di guerre sistematizzate, dove le grandi potenze mondiali creano nemici dove non ci sono e perpetuano la violenza in tutto. In questa performance trasmetto la mia storia di trent’anni durante i quali ho assistito a una storia ripetuta di falsità a sostegno della guerra e della distruzione.
E no, non mi sono stancata e non mi stanco. Da quando mi ricordo, mi sono sentita particolarmente sensibile ed emotivamente empatica nei confronti delle ingiustizie sociali in tutto il mondo. Mentre viaggiavo nel corso degli anni ho partecipato a manifestazioni in Spagna, Colombia e Stati Uniti. Mi sono opposta a tutti i tipi di ingiustizie. È questa lotta costante contro la violenza che mi ha portato a creare diverse mie performance. Ci sono stati un certo numero di momenti più storici che mi hanno particolarmente toccato attraverso la mia vita. Nel 1986, mentre vivevo in Andalusia, gli Stati Uniti bombardarono la Libia. Gheddafi ha così minacciato di bombardare le basi militari degli Stati Uniti nel Mediterraneo e tra loro, quelli in Andalusia, non lontano da dove vivevo con il mio bambino di un anno.
Ricordo che la paura di una minaccia imminente mi faceva venire i brividi. Poi nel 1991 il bombardamento del Golfo Persico è stato trasmesso in diretta televisiva per la prima volta. Vivevo a Madrid in quel periodo e ricordo come le uccisioni di massa di persone venivano mostrate quasi come se fosse uno spettacolo di fuochi d’artificio! Era tutto così abominevole! Mentre vivevo a New York City ho poi sperimentato la tragedia dell’11 settembre. Mio fratello e mia sorella, che sono insegnanti, lavoravano vicino al World Trade Center e videro dalle loro classi le torri crollare: ho aspettato per ore per sentirli e per vederli tornare a casa dopo aver camminato da Manhattan al Queens. Poi, in breve tempo, è arrivata l’invasione statunitense dell’Iraq, dove la coalizione dei Paesi europei e gli Stati Uniti giustificavano il loro attacco sostenendo che l’Iraq aveva armi di distruzione di massa quando non era vero.
Sei nata in una famiglia cattolica e hai quattro fratelli maschi: qual è stato il tuo rapporto con la tua famiglia?
Anche se mia madre ha insistito affinché tutti i suoi figli avessero un’educazione completa, era ancora frutto di un ambiente e storia di machismo. Agli uomini di casa era concesso di dedicarsi ai loro hobby, mentre a noi, le due ragazze della famiglia, dovevamo finire tutte le faccende domestiche. Ho sempre detto che era una situazione ingiusta perché anche loro dovevano fare la loro giusta parte. Tale ribellione mi ha messo a confronto con la mia famiglia e mi ha portato a diventare indipendente all’età di ventun anni, quando mi sono trasferita a vivere nella capitale di Bogotà. La mia famiglia è però rimasta ed è presente in alcuni miei lavori fondamentali come Tendidos del 1979.
In quest’opera racconti la tua famiglia?
Provengo da una famiglia che ha vissuto sulla sua pelle la violenza scatenata in Colombia dall’assassinio del candidato alla presidenza liberale Jorge Eliecer Gaitan nel 1948. Mio padre era solito mostrarmi i giornali dell’epoca, mostrando l’oppressione del governo conservatore, dove i membri dell’opposizione venivano uccisi indiscriminatamente. Durante gli anni Settanta, ho sperimentato e visto come l’esercito colombiano perseguitava, torturava e imprigionava coloro che si opponevano. Questo mi ha colpito profondamente, facendomi sentire impotente. Anche perché in questi contesti di violenze eravamo noi donne le più colpite. In questa performance quasi catartica ho denunciato gli stupri aberranti, le torture e le sparizioni forzate subite da diversi parenti e amici, donne di campagna, casalinghe e studenti universitari che si erano opposti contro il sistema di governo colombiano.
Come mai hai interrotto i tuoi studi di giurisprudenza? Non saresti stata un buon avvocato a difesa dei diritti delle donne?
I miei studi mi hanno spinta a lavorare affinché tutte le persone godano e dispongano di uguali diritti civili. In Colombia c’erano però articoli nel codice civile colombiano che erano manifestamente patriarcali e discriminatori nei confronti delle donne. Eravamo trattate come incapaci di gestire i nostri beni o educare i nostri figli. Un matrimonio poteva essere annullato a causa dell’infedeltà della donna. Fortunatamente, anche grazie della perseveranza dei gruppi femministi, tali leggi sono state abolite con la nuova Costituzione del 1991 e le successive riforme del 2005 e del 2006. Ho lasciato i miei studi perché non mi vedevo a litigare per difendere leggi ingiuste. Erano leggi fatte da uomini per uomini. Sono così entrata nella Scuola Dipartimentale di Belle Arti di Cali. Ho iniziato a ripensare a come trovare un modo per gridare al mondo intero che tutto ciò era ingiusto. L’arte è stato lo strumento per dare voce e risposta alla mia frustrazione.
Hai sempre documentato le tue performance con un approccio quasi cinematografico, con un gesto preciso, studiato e ripetuto. Il montaggio o la documentazione fotografica non sono mai stati casuali. Sembra quasi di vedere un rituale, più che un gesto improvvisato…
Sono cresciuta in un ambiente religioso cattolico, e vengo da una famiglia dove i rituali ripetuti erano sempre presenti. Anche se preparo sempre una bozza di sceneggiatura prima della performance, ci sono sempre eventi inaspettati che si verificano. I video delle mie performance non sono quindi focalizzati sull’aspetto filmico, che è solo il mezzo con cui li documento. Ad esempio, nell’opera Anonimo 4, il vomito e il pianto sono cose non pianificate che accadono nel momento, tanto ero immersa nella performance. Per essere precisi, scrivo sempre brevi copioni del mio lavoro e fornisco istruzioni alle persone che filmano e fotografano la performance.
Spiego l’idea nel dettaglio e cerco di trasmettere loro come mi sento e cosa significa per me. Ciò mi riuscì molto bene negli anni Ottanta perché eravamo tutti giovani che stavano attraversando una situazione molto complessa di repressione sociopolitica. Per Anonimo 1, il fotografo Fabio Arango era uno studente della Scuola Dipartimentale di Belle Arti, e per Anonimo 3 e Anonimo 4, il fotografo Nelson Villegas e il videografo Antonio Dorado erano studenti di Scienze della Comunicazione all’Universidad del Valle. Vivevamo tutti nella paura della repressione che stavamo sperimentando all’epoca. Ancora adesso rivedendo quegli scatti e quei video mi meraviglio del risultato e di come siano riusciti a catturare i miei sentimenti e le mie emozioni, forse perché eravamo tutti sulla stessa barca.
Cosa significa oggi lottare per i diritti delle donne? Cosa pensi dei movimenti di Me Too?
Essere una femminista oggi sta rendendo la società consapevole che nessuna donna al mondo dovrebbe essere considerata inferiore, dobbiamo porre fine alla violenza sessuale, alla pornografia e al femminicidio. Non dobbiamo temere il controllo del nostro corpo, o il diritto di non essere madre o di avere una maternità libera dai ruoli che le nostre nonne e madri hanno vissuto in altri decenni. La lotta per i diritti delle donne è stata ed è una strada lunga e bellicosa. Si sta evolvendo secondo le esigenze contemporanee, ma è solo il mezzo che si è trasformato. Dobbiamo continuare a creare nuovi paradigmi culturali, con cambiamenti che iniziano durante l’infanzia attraverso il sistema educativo, per scardinare il machismo.
Il movimento Me Too è stato importante perché ha usato i social in una nuova forma, come strumento per rendere visibili abusi prima silenziati. Ha portato al controllo pubblico di uomini potenti, magnati e politici, che erano stati fino ad allora intoccabili. Prima di allora il potere era uno strumento utile che permetteva di abusare e molestare le donne. Anche se molti hanno continuato con la loro condotta inappropriata, il movimento Me Too ha contribuito a fissare limiti.
Femminismo, minoranza e fluidità di genere. Non è rischioso condurre singole battaglie e non combattere piuttosto insieme contro l’idea stessa di discriminazione di chi è in qualche modo “diverso” o rappresenta una minoranza?
Il femminismo, nella sua lotta per l’uguaglianza, si è evoluto. Sono ora le nuove generazioni, sulla base dei primi successi del movimento, che sono riuscite a sensibilizzare e a vedere il genere sotto una definizione più ampia non limitata da un binario femminile-maschile. Sebbene stia ancora imparando a conoscere le molteplici espressioni di genere e identità, sostengo coloro che lottano per eliminare tutte le forme di discriminazione. Parlare di genere è una questione di diritti umani perché tutti meritiamo di essere trattati con rispetto e uguaglianza indipendentemente dal nostro genere. Il femminismo ha aiutato a capirlo e a portarlo in primo piano.
Il mondo dell’arte è diventato sempre più mondano. Cosa pensa di questa contraddizione tra i diritti umani e il mercato dell’arte?
Non sono mai stato troppo coinvolta nelle dinamiche del mercato dell’arte. Fin dall’inizio della mia carriera di performance artist sapevo che il mio lavoro sarebbe stato rifiutato a causa della sua natura aggressiva e del contenuto politico. Ancora oggi, decenni dopo la mia prima performance, il mio lavoro continua a generare attriti e risulta per molti repulsivo: sembra non rientrare ancora nei parametri del mercato dell’arte. Solo poche istituzioni e alcune femministe hanno osato comprare il mio lavoro.
L’arte è ancora un mondo di uomini?
È un dato di fatto che da sempre è così. Dobbiamo continuare a lottare per salvare le donne che hanno fatto la storia e hanno contribuito in tutti i settori della conoscenza, tra cui la scienza, la letteratura e le arti, fin dagli albori dell’umanità. Ad esempio, le ultime ricerche sui dipinti rupestri trovati in Spagna e Francia hanno trovato tracce, la maggior parte di donne, il che conferma che mentre gli uomini andavano a caccia, dipingevano le pareti della grotta. Le donne hanno creato arte fin dagli albori dell’umanità!