L’avventura di Donato e Matteo inizia nel 2017: dopo tre lauree e svariate esperienze lavorative in tutto il mondo, la passione per il buon cibo li conduce a Milano, città prescelta per dare vita a un progetto fortemente ragionato in cui far confluire i tanti stimoli raccolti in contesti culturali e sociali disparati. Il concept di ispirazione danese sviluppato dai due fratelli ruota attorno a una sensazione intraducibile, se non altro in italiano: “hygge” è godersi il bello della vita con le persone care, gioendo delle cose semplici e dei piccoli piaceri quotidiani, come la colazione, il pranzo e il brunch (che li ha resi famosi in città).
Nomen omen, Hygge vuole essere un rifugio di quartiere (Sant’Ambrogio per l’esattezza) in cui trascorrere momenti di relax e di intimità: e se gli inverni lunghi e le estati brevi e buie spingono i popoli nordici a cercare conforto nella propria casa, in compagnia di amici e parenti, la frenesia alienante del tran-tran milanese nasconde lo stesso potenziale scoraggiante. La soluzione è un open space dallo stile industriale, capace di creare un’atmosfera rustica e accogliente ma allo stesso tempo moderna e sofisticata: il tavolo di legno grezzo al centro della sala è un invito a condividere e stare insieme, coccolati dalle piante e dalla luce calda e soffusa.
Lo stesso senso di familiarità e accoglienza anima il menu serale, attivo dal 15 marzo dal mercoledì al venerdì (per il momento): seguendo il trend sempre più radicato nei bistrot meneghini, la proposta si libera dalla rigida separazione – tutta italiana – tra primi e secondi piatti, sposando piuttosto la filosofia della cucina kaiseki, con lo scopo di offrire un’esperienza culinaria completa: bites, portate principali e contorni sono i tasselli di un viaggio tra culture gastronomiche diverse, accomunate dall’intento di suscitare al palato un ricordo rassicurante – per quanto contaminato – arricchito da un’aura di freschezza e modernità.
Il rispetto della stagionalità e del valore delle materie prime, scarti inclusi, si pone al centro di un percorso ricco di suggestioni orientali, che gioca sui contrasti di sapori e consistenze: così il morso affonda nel cuore tenero di un carciofo dai sentori affumicati, per poi essere sorpreso dalla croccantezza delle foglie esterne, fritte; e visto che non solo del maiale non si butta via nulla, anche i gambi (marinati) entrano a far parte del piatto. Se fin qui l’assaggio richiama i ricordi dell’infanzia – quando in campagna seppellivamo i carciofi sotto la cenere avanzata dalla brace – il miso e la vaniglia scompigliano le carte: le note dolci della spezia bilanciano il gusto terroso e leggermente amarognolo dell’ortaggio, andando ad ammorbidire anche l’umami della pasta di soia fermentata; a chiudere, l’acidità delicata del beurre blanc completa e avvolge il boccone, conferendo alla pietanza un tocco sofisticato e per nulla pretenzioso.
In coerenza con il concept fondante di Hygge, troviamo “piatti della memoria” in cui lo chef Nicola Cingolani custodisce il suo bagaglio di vita: di origine marchigiana, inizia la sua carriera milanese al fianco dello chef Yoji Tokuyoshi, la cui influenza è chiaramente visibile nelle contaminazioni asiatiche che pervadono tutto il menu.
Così il kimchi “all’italiana” – con il finocchio a rimpiazzare il cavolo cinese – sgrassa il french toast ingolosito dal ciauscolo (salume spalmabile della tradizione contadina dell’entroterra umbro-marchigiano), mentre il katsuobushi e l’uovo marinato conferiscono un tocco esotico alla cara vecchia zuppa di fagioli. Il più grande omaggio di Cingolani alla sua terra natia è la sovracoscia di pollo alla brace con ciliegie fermentate, taggiasche e rosmarino, romantica rivisitazione del ben più rustico “pollo in potacchio”: il trito a base di rosmarino viene conservato nella cottura sottovuoto che precede il passaggio sulla brace, e impreziosito dalla componente acida delle ciliegie fermentate, il cui succo aggiunge complessità al fondo bruno.
Il pairing alcolico può essere sfruttato come vincente elemento di raccordo, in grado di conciliare i contrasti di sapore e soprattutto di equilibrare le pietanze più opulente: accanto alla selezione di vini naturali e biologici (italiani e stranieri) troviamo l’opzione assai alternativa dei mocktail realizzati in casa; la frutta – talvolta macerata – unita a spezie come la curcuma, il dragoncello e il cumino, diventa la base di drink acetici che vanno a ripulire il palato morso dopo morso.
E se le portate salate – per quanto originali – sono contraddistinte da un fil rouge di golosità adatto a tutti i palati, l’approccio al dessert si rivela alquanto ardito: Silvia Radaelli, pastry chef reduce dal Seta, mescola abilmente il dolce e il sapido, inserendo con disinvoltura la componente vegetale per concludere la cena in leggerezza. Ne è un esempio la mousse di capra con rapa marinata, polline e noci: emblema di una concezione “antistucchevole” in parte affine alla degustazione di formaggi a fine pasto, risulta tanto dirompente quanto apprezzabile.
Con l’apertura serale, Matteo e Donato – con la complicità dello chef Cingolani – cercano di coronare un’avventura iniziata sei anni fa, accogliendo i milanesi nel loro angolo felice in via Sapeto: perché se «Ognuno sta solo sul cuore della terra» può sentirsi meno solo nel cuore di Milano.