Quale allegriaL’ottantesimo quattro marzo di Lucio Dalla, l’undicesimo in cui non c’è, e anche noi non ci sentiamo tanto bene

L’unico compleanno che ancora ricordiamo senza l’aiuto di Facebook è quello che è anche il titolo d’una canzone. Non c’è ragione di festeggiare, ma siamo un’epoca così scema che diciamo buon compleanno ai morti

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Primo flashback. Quella volta che in un romanzo che avevo scritto qualcuno raccontava un aneddoto in cui uno diceva «Ciao», qualcun altro rispondeva «A te e a tuo figlio finocchio», e poi conoscendo i miei polli avevo fatto dire a uno dei due «Lucio Dalla», e l’ufficio legale della casa editrice mi disse serissimo che rischiavo una querela per aver dato del finocchio a Dalla, e allora avevo molti meno anni di social in curriculum e ancora non sapevo che l’ufficio legale era il lettore medio: che non coglie neanche le citazioni facilitate.

Una volta sapevamo i compleanni e i numeri di telefono. Perlopiù li sapevamo: «Avrei voluto parlarti questa sera ma sono solo nella casa di Roma e non so il tuo numero a Teramo», scrive Dalla a Roberto Roversi dopo aver finito d’incidere il primo disco.

Che i numeri di telefono che spesso componevamo li ricordassimo ha una qualche logica. Ma i compleanni, come diavolo facevamo? Adesso, se non me lo ricorda Facebook, di compleanno non so neanche il mio.

Ogni sedici aprile penso che è il compleanno della mia amichetta delle medie, e non la vedo da più di vent’anni e non le faccio gli auguri forse da trentacinque, ma morire se mi ricordo i compleanni di gente con cui parlo tutti i giorni, e che non ha Facebook non avendo rispetto dell’altrui smemoratezza.

In comune tra le due stagioni, c’è l’unico compleanno che sappiamo tutti, perché sta in un titolo (come la morte di Napoleone, disse lei grazie a Google, santo Google che le ha evitato di dire che il 5 maggio è notoriamente il compleanno di Napoleone, d’altra parte «Ei fu, siccome immobile» è una tipicissima frase da biglietto di auguri).

Il compleanno che sanno tutti non c’è ragione di festeggiarlo, non essendoci più nessuno da festeggiare, ma siamo un’epoca così scema che diciamo buon compleanno ai morti, e quindi oggi è l’ottantesimo compleanno di Lucio Dalla, un uomo del quale non c’è niente da dire.

Cosa dici d’un pezzo di paesaggio? Cosa dici di casa tua? Cosa dici d’un tizio che quando ha deciso di cominciare a scriversi lui le canzoni ha scritto “Com’è profondo il mare”, cosa dici quando quarantasei anni dopo i cantautori neanche esordienti scrivono dei testi che sembrano temi delle medie, cosa dici, meno male che sei morto e non sai che non hanno imparato niente? («Le responsabilità sono tante, l’impegno è totale, le possibilità infinite», scrive sempre Dalla in quella lettera a Roversi del secolo in cui un disco era un punto d’arrivo).

Forse potremmo giocare a disco di Dalla preferito, a canzone di Dalla preferita, a verso di Dalla preferito, ma è un gioco impossibile: io cambio idea ogni quindici secondi, ho certezze solo sui dispiaceri (“Caruso” sta a Dalla come “Una giornata particolare” sta a Scola: se vi piacciono quelle due opere, non vi piacciono quei due autori).

“Piazza grande” è una delle due canzoni che mi fanno più piangere nella storia della musica, ma mica sono sicura che sia la migliore canzone di Dalla. Forse “Il parco della luna”. Forse “Telefonami tra vent’anni”. Forse “Disperato Erotico Stomp”.

(Quel che i disagiati cui non piacciono Dalla e Scola non capiranno mai, nel loro sdilinquirsi per “Caruso” e per “Una giornata particolare”, è che son bravi tutti con lo struggimento: far commuovere il pubblico è facile, è girare “Brutti, sporchi e cattivi” o scrivere “Disperato Erotico Stomp” che fa di te un genio).

Secondo flashback. È un’estate delle scuole elementari, nella piscina del circolo del tennis che la mia famiglia frequenta nonostante non giochi a tennis. Dalla è sotto la doccia, e una bambina più coraggiosa di me mi convince ad andargli a chiedere se ci canta “L’anno che verrà”. I dettagli di questa scena me li ricordo diversi ogni volta che me la rivendo – credo d’essermela rivenduta la prima volta quand’è morto, undici anni fa, con un certo anticipo rispetto alla coccodrillite egotica che tanto si porta in questo decennio. L’unico dettaglio che non cambia mai e che sono certa non sia un falso ricordo è: Dalla faceva la doccia col basco di lana, il che alla me settenne pareva perfettamente normale, avendo lui quel basco sulla copertina del disco, non avendo io il senso delle stagioni, essendo lui un cartone animato. Mica ti aspetti di vedere Braccio di Ferro non vestito da marinaio.

Il quattro marzo in cui Lucio Dalla compirebbe ottant’anni è l’undicesimo quattro marzo in cui Lucio Dalla non c’è, in cui non esiste la possibilità di una nuova “Quale allegria” ma neppure quella di una nuova “Mambo”. In cui sfogliamo reperti delle vite che furono, leggiamo il Dalla trentenne che scrive a Roversi «Non venderei questo disco neanche per la vita di mia madre (forse ho esagerato)» e piangendo ci viene da ridere, in cui ci sembra preveggenza ogni riga di ogni corrispondenza, specie quella sulla «dolce cialtronesca mediocrità», che – se parlava di sé e non delle nuove uscite su Spotify – è solo perché non le aveva sentite, beato lui.

Lo so, lo so: sono diventata mia nonna. Nostalgica e sempre con in tasca l’aneddoto pronto su quant’era verde la mia valle e ai miei tempi che ne sapete voi giovinastri. Quanta brillantina e coraggio mi mettevo: guarda oggi come piango.

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