Molti anni fa morì un tizio con cui avevo intrattenuto dei commerci carnali. Ci eravamo persi di vista da un pezzo, ma non mi venne neanche in mente di non andare al suo funerale.
Ero giovane, e avevo pochissima esperienza di amori che ti muoiono, e di certo non sapevo che tutti gli esseri umani, pure quelli più sensibili, arrivano a un punto della vita in cui una persona cara che ti muore è un dolore ordinario.
Andai al funerale, che era all’inizio di gennaio, a Roma che come tutti sappiamo è Roma: un posto i cui abitanti hanno deciso di non potersi permettere alcuna sensibilità. Alla me ventiequalcosenne, assistendo allo spettacolo della borghesia romana che tratta un funerale come fosse un brunch, prese un colpo.
Certo che c’era anche gente straziata, singhiozzante, o anche solo contrita; ma la più parte era gente che era lì perché era il modo più rapido di raccontarsi le vacanze: com’era Cortina, com’erano le Maldive, ma non sai con chi scopa Tizia, Caio si sta separando. Ricordo ancora la mia indignazione.
Ci ho ripensato in questi giorni che abbiamo – noialtri che prendiamo parte alla conversazione collettiva – trascorso a processare i poricristi che, alla camera ardente per Maurizio Costanzo, hanno fatto ciò che fanno i poricristi di provincia che conducono vite di tranquilla disperazione: hanno chiesto un autoscatto a Maria De Filippi.
C’è stato chi ha ingrandito la foto del porocristo ripreso dalle telecamere e l’ha messa sui social come fosse una foto segnaletica: guardatelo, questo schifoso che non ha rispetto dei morti. Ci sono stati gli aspiranti sociologi – una pletora – che ci hanno spiegato che d’altra parte questa è l’umanità che è stata creata dalla De Filippi, e l’autoscatto davanti alla bara del marito è un contrappasso (avevano l’aria di sentirsi intelligentissimi, mentre affermavano questa imbarazzante stronzata).
E noialtre ce lo siamo guardato in televisione, in diretta come fosse Sanremo: uh guarda c’è Eleonora Giorgi, uh c’è Montezemolo che saluta la vedova, cosa le dirà, uh Luxuria che fa la comunione, uh c’è più gente che panche e Bonolis è rimasto in piedi, uh la De Filippi s’è seduta vicino a Piersilvio, uh guarda Piersilvio che montatura di occhiali da benzinaio, uh Lele Mora in fila per la comunione dietro a Giancarlo Leone, che fantastico soggetto di Fellini.
E loro, loro così fortunati da avere un invito a quell’evento mondano che è un funerale romano, si sono instagrammati nella loro brava inquadratura funeralizia così come avrebbero fatto a una qualunque prima di cinema. Non tutti, è chiaro: anche lì c’era di certo gente autenticamente addolorata che a quel funerale elaborava il lutto, in mezzo a gente per cui era una cena in piedi senza canapé.
Giacché la differenza tra la gente che piace e la gente che si dispera è che il primo gruppo ha i numeri giusti in rubrica, non ha bisogno di chiedere l’autoscatto davanti alla bara per esistere: ha bisogno che l’assistente di Costanzo le conceda un posto in chiesa.
Pensare che la gente dentro la chiesa sia spiritualmente diversa da quella che aspetta fuori con la telecamera del telefono pronta svela una certa imbecillità. Credere che ci sia gente orrenda e incapace di guardare Uomini e donne con distacco ironico, e separati da apposite transenne ci siamo noialtri dell’alta società che abbiamo sobrio rispetto del dolore, è, oltre che classista, ottuso: tutti vogliono esistere, ma la disperazione di alcuni è meno scomposta.
Nel fermoimmagine più condiviso sui social, quello del porocristo che sorride al telefono di fianco a Maria De Filippi paziente e composta, di fianco a una vedova in occhiali neri e consapevolezza che in quel momento sta accontentando un disgraziato senz’altre soddisfazioni, in quel fermoimmagine lì c’è, pochi metri più in là, un tizio che di mestiere pubblica cattiverie sui famosi. Quel tizio era alla camera ardente perché è sensibile e addolorato, o per osservare l’antropologia del luogo e poi raccontare a cena o nel suo serbatoio kitsch di osservazioni sulla romanità chi avesse una calza smagliata e chi una faccia nuova, ahò quella ma non sai quanto s’è rifatta? E altri tizi che erano al funerale ma mai sarebbero andati al Costanzo Show di quando la sua dominazione televisiva era bella che finita, loro erano più sensibili della Vongola75 che chiede «Maria, che ce la possiamo fare una foto?» – o siamo noi che non sappiamo sfuggire al riflesso pavloviano di sentirci migliori di fronte al niente?
Riusciamo, una volta, a essere meno compiaciuti nel nostro essere forti coi deboli? A non accanirci sempre e solo sui disgraziati, siano questi disgraziati il tizio senza alcun potere personale che dal funerale del famoso vuole solo autoscatti coi famosi ancora vivi, o il poveraccio che dice che gli piace Baudelaire per darsi un tono ma poi non sa neanche un titolo di poesia, o qualunque altra vittima della nostra facile superiorità? Riusciamo a non mettere su il tono delle ragazze in visita al campo di concentramento, quelle alle quali, in “Serge”, Yasmina Reza fa dire «Le tracce delle unghie sulle pareti sono qualcosa di indicibile», «Le tracce sulle pareti sono qualcosa di terribile, vero?», «Terribile» – riusciamo?
Forse no. Forse siamo anche noi dei poricristi che s’illudono di sembrare brave persone dicendo che i campi di concentramento sono una cosa proprio brutta, forse siamo così a corto di superiorità morale che riusciamo a esercitarla solo sull’ultimo anello della catena alimentare: quelli il cui picco di felicità, in mezzo a giornate di tranquilla disperazione, è l’autoscatto con la bara famosa.