That’s amore Luoghi comuni gastronomici

La cucina italiana all’estero è fatta spesso di stereotipi consolidati e di ricette che vivono di vita propria, ma tanti cuochi e imprenditori con la loro attività e il loro impegno possono far cambiare lo sguardo degli stranieri sul nostro Paese

Foto di Adam Gonzales su Unsplash

Qualche giorno fa, un amico grande viaggiatore e grande appassionato di cucina, mi ha mandato il menu di un ristorante italiano a Tolosa, dove è stato portato con entusiasmo dai suoi colleghi locali, felici di poter far assaggiare la cucina del suo Paese al collega venuto dall’Italia.
Al netto della delusione dell’italiano, che già pregustava una cena a base di canard e fromage, il menu si è rivelato peggio del previsto. Non tanto per la qualità dei prodotti, quanto per la concezione stessa della lista, infarcita di luoghi comuni gastronomici e raccontata con dovizia di particolari, che rivelavano una completa e assoluta incompatibilità con la “nostra” tradizione, e con errori clamorosi nell’esecuzione di quelli che sono unanimemente considerati i grandi classici della cucina italiana.

Ci sono mille motivi che hanno portato a quel menu, e quell’idea della nostra cucina: dipende dall’emigrazione che ha molto “interpretato” i piatti italiani, dalla necessità di sostituire alimenti introvabili all’estero, e da una parziale ignoranza di chi andava lontano da casa e magari si improvvisava cuoco, non essendolo per niente. In fondo, persino McDonald’s nazionalizza a seconda del posto in cui è i suoi panini: perché non avrebbero dovuto farlo gli emigrati italiani? Di sicuro dipende da un bisogno di accettazione: se ai francesi piacciono le salse cremose, perché non aggiungere la panna nella carbonara? In fondo, il cibo è un ottimo argomento di inclusione e di condivisione, e fare compromessi è uno dei principi base della convivenza.
Ma forse il problema è un po’ più ampio, ed è un problema di visione.

Quando il mondo pensa all’italianità, e all’essere italiano, al nostro stile di vita, spesso pensa a immagini stereotipate che derivano dai film stranieri, o dall’immaginario di qualcuno che italiano non è. Perché se sei italiano, non hai bisogno di capire che cosa vuol dire “bere un caffè”, o prendere l’aperitivo, o come si cuoce la pasta e perché qui non è un contorno. Sai che il cappuccino si prende solo a colazione e che Roma non si gira in Vespa, sai che al Sud non ci sono solo il mare e la pizza, e sai che il vino non si serve più in fiaschi e nei ristoranti non ci sono solo tovagliette a quadri bianche e rosse. Quello sguardo che ci vuole così è proprio quello degli stranieri, che qui vengono in visita per pochi giorni nella vita, e ci raccontano come eravamo, o forse come pensavano che fossimo, senza che questo rappresenti la nostra autentica realtà.
Lo vediamo più che mai nelle ricette e nei menu: spessissimo quello che troviamo all’estero non corrisponde a quello che normalmente mangiamo qui. Sempre più spesso è una caricatura malfatta di piatti pseudo italiani, con qualche licenza poetica data dalla lontananza e dalle cattive interpretazioni di un’italianità da cartolina sbiadita, anni ’60.

Ma c’è un’italianità autentica che si percepisce e si costruisce qui da noi, e piano piano pervade il mondo: è quella fatta dalle persone, dagli artigiani, dagli artisti, dagli imprenditori che con la loro attività e il loro impegno provano a cambiare lo sguardo straniero sul nostro Paese, e diventano nel tempo testimoni di questo nuovo racconto dell’Italia, della nuova narrazione che porta il mondo a casa nostra, verso una visione contemporanea di noi.
A questi italiani è dedicata dunque la candidatura della cucina italiana a patrimonio UNESCO, più che alla “cucina italiana” in sé. A quella capacità tutta nostrana di simboleggiare il “buon vivere”, nonostante tutto. A tutte le persone che la cucina italiana la fanno, tradizionale o rivisitata, creativa o ancorata al passato, rimediata per piacere agli stranieri o autentica e rigorosa. Perché sono loro i veri ambasciatori del nostro Paese nel mondo, e quelli in grado di convincere anche il più reticente degli stranieri, a pensare che è questo il territorio che più di ogni altro è in grado di creare meraviglie attraverso il cibo e il suo racconto. Magari anche senza bisogno di mettere la panna nella carbonara.

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