Se un tempo per mangiarne uno bisognava andare a Roma, magari da Regoli, e magari la mattina presto, perché dopo le 10 era praticamente impossibile trovarne, oggi il maritozzo è ovunque, e spopola nelle mille versioni che la moda ha costruito intorno a questo lievitato morbido ripieno di panna suadente, dalle dimensioni ciclopiche e dalla goduria acclarata.
La bomba ripiena ha conquistato Milano, grazie alla visione di Ilaria Puddu, che ne ha fatta un’icona di comunicazione e un oggetto del desiderio, simbolo di instagrammabilità nelle sue pasticcerie inconsuete dal nome evocativo, Gelsomina, dove tutto è al posto giusto per diventare il simbolo di una tendenza in divenire. Persino lei, all’inizio si chiedeva come mai le ragazze bon chic bon genre della Milano bene si lasciassero andare a questa non dietetica scelta: eppure, farsi un selfie col maritozzo è diventato negli anni un must imprescindibile per tutte le wannabe influencer, e oggi questa brioche di origine romana è quasi come il sushi, in quanto a popolarità. È talmente sdoganata che quasi non la fotografiamo nemmeno più, prima di addentarla, ma continuiamo a mangiarla e stiliamo classifiche, perché non è tutto buono, il maritozzo alla milanese. Quelli da mettere nel carnet sono – oltre a quello di Gelsomina, e quello – indimenticabile ma non più mangiabile, di L’americano che amava le brioche, o quello attualissimo che spunta nelle vetrine di Marlà, vicino a Porta Romana, soffice e ripieno di panna cremosa al punto giusto.
È diventato talmente un’icona che c’è qualcuno che lo sta già superando: perché quando qualcosa diventa mainstream, c’è subito voglia di trovare una possibile sostituzione. Questa è Milano, e questa è la sua costante voglia di andare oltre. E oltre prova ad andare Alain Locatelli, che prende in prestito un altro grande classico, ma stavolta della pasticceria francese, e ne fa un’alternativa filosofica e culturale. Nella sostanza, in effetti, la sua tropezienne è comunque simile, ma cambia l’impasto, il taglio, e cambia la farcitura. Quel che non cambia è andare al di là della brioche, e tentare di far diventare un gesto di gola uno sgarro totale e incondizionato. E, forse, è proprio questo il fascino sottile e indiscreto del maritozzo: quel senso di liberazione che dà un cibo godurioso allo stato puro, che spezza le regole milanesi e rende possibile andare oltre ogni limite peccaminoso.
E quindi perché non esportarlo? Dopo aver conquistato Milano, il maritozzo sta infatti spopolando a Parigi: innumerevoli le sue versioni che spuntano ai banchi delle insegne italiane in città, da Cova a Eataly, alle meno celebri ma altrettanto nostrane Pasticceria Simona in rue Mandar, Ave Pizza Romana o Il Gelato del Marchese, gelatiere romano artigianale che ha in vetrina anche i gonfi panini imbottiti di crema e decorati con pistacchio, arancia, nocciole o cioccolato.
Ma le ricerche di Chiara Patrizia De Francisci in terra francese hanno portato questa insaziabile ricercatrice del buono a scoprire i maritozzi anche nelle pasticcerie parigine. La versione forse meno canonica si trova invece da Frappe Boulangerie dove ne propongono uno di ispirazione anglo-francese, segno della completa s-romanizzazione del dolce: si chiama MaRolltozzo ed è una brioche con una crema alla vaniglia, che prende le sembianze del classico romano ma è molto più ricca nella farcitura e con un lievitato meno morbido e meno arioso.
E persino sul New Yorker si parla di maritozzi, in un corto circuito regionale internazionale che merita una riflessione su come nulla rimanga ancorato alla sua origine, se funziona e fa tendenza. Ne scrive Hanna Goldfield, entusiasta della sua scoperta. Ma non è un romano ad averlo esportato, e non è romana l’insegna che lo vende. Si chiama Lodi, e già qui potremmo scrivere un trattato su come ogni angolo d’Italia abbia un suo fascino sugli stranieri. E ai fornelli c’è uno chef uruguaiano Ignacio Mattos, allievo di Alice Waters e Francis Mallmann, arrivato a New York City nella cucina de Il Buco, uno dei migliori locali italiani di Manhattan, per poi attraversare l’East River per aprire il ristorante Isa a Williamsburg, vincitore del James Beard Award. Oggi «Ignacio Mattos ci mostra cosa può succedere quando uno chef di altissimo pedigree si presta alla ricerca di piccoli piaceri quotidiani, andando oltre alla canonica e raffinata cena a più portate. Ai tavoli di una “terrazza” coperta di Lodi (1 Rockefeller Plaza), il suo caffè di ispirazione milanese, si può ordinare un pasto sontuoso. Da non perdere il delizioso paté di fegatini su crostini o la milanese di maiale con osso, quando è disponibile. All’interno ci sono un bar e una panetteria che mantengono gli stessi standard in modo più disinvolto, sorprendendo tra gli sterili salad bar del centro. Un normale contenitore d’asporto potrebbe contenere una straordinaria zuppa di farro, verze e prosciutto, oppure un’insalata di lenticchie croccante con finocchi. L’altra mattina, mentre sedevo sorseggiavo un macchiato e mangiavo un ottimo maritozzo – un grande lievitato di pasta brioche con una spessa striscia di panna montata e ripieno di crema pasticcera alla vaniglia – un anziano signore elegantemente vestito sullo sgabello accanto a me stava facendo esattamente lo stesso. Mi ha indicato con gioia il pasticcino, spiegando che veniva da Roma, come lui». E se non è export ben fatto del made in Italy questo…