Le elezioni presidenziali in Turchia sembrano avere ormai una data certa: il 14 maggio. La notizia è stata confermata dal capo di Stato, Recep Tayyip Erdogan, che ha così messo a tacere le voci sulla posticipazione delle urne a giugno o addirittura a data da destinarsi a causa del terremoto. Dopo il sisma, migliaia di persone sono rimaste senza casa e sono state costrette a trasferirsi nelle tende o a spostarsi in altre città per trovare riparo, mentre nell’area interessata è stato dichiarato lo stato di emergenza per tre mesi.
Da una parte questo insieme di circostanze aveva fatto sorgere non pochi dubbi sulla possibilità di garantire il diritto al voto alla popolazione colpita dal terremoto, dall’altra ci si è a lungo interrogati sugli effetti che il sisma avrebbe avuto sul gradimento del presidente e sui vantaggi che Erdogan avrebbe potute trarre dal posticipare o dal confermare la data delle elezioni. Gli ultimi sondaggi però sembrano giocare a favore del presidente e del suo partito, l’Akp.
Secondo le rilevazioni pubblicate la scorsa settimana, l’alleanza tra la formazione del presidente e i nazionalisti dell’Mhp può contare sul quarantaquattro per cento delle preferenze, un dato che è rimasto pressoché immutato rispetto a quello registrato a gennaio. Il terremoto, dunque, non sembra aver inciso sul supporto degli elettori alla coalizione di governo, che si ripresenta ancora una volta unita alle prossime urne. Erdogan, da solo, ha persino guadagnato tre punti percentuali secondo l’indagine di Team, allungando la distanza con gli altri candidati alla presidenza.
Come sottolineato da Ulas Tol, direttore del centro di ricerca, nelle prime quarantott’ore dopo il terremoto le critiche nei confronti del governo in carica sono state molto forti, ma con il passare dei giorni il gradimento verso il presidente e il suo esecutivo è tornato ai livelli pre-sisma. A giocare in favore di Erdogan è il fattore stabilità. Il governo in carica ha subito avanzato un piano di ripresa e ricostruzione dell’area terremotata, ha addossato le responsabilità delle morti ai costruttori e agli amministratori locali, riuscendo così a presentarsi come l’unico in grado di portare sollievo immediato alla popolazione terremotata.
L’opposizione, riunita nel cosiddetto «Tavolo dei sei», non ha avuto la stessa prontezza nel proporre un piano per il post-terremoto e non trovandosi già al governo parte da una situazione di svantaggio rispetto all’esecutivo attualmente in carica. La gravità dell’evento ha anche costretto l’opposizione a moderare gli attacchi contro Erdogan e la sua coalizione, ma le carenze del Tavolo dei sei sono ormai strutturali. Il gruppo ha un programma molto vago e basato più sul ripristino del sistema parlamentare che su riforme economiche e sociali precise, due aspetti tra loro strettamente collegati e che rappresentano le principali preoccupazioni dei cittadini turchi.
A complicare ulteriormente la situazione è la scelta del candidato presidente. La coalizione intende indicare come sue rappresentate il leader del partito repubblicano, Kemal Kilicdaroglu, ma la scelta ha causato nei giorni scorsi una spaccatura ricucita in extremis solo nella giornata di lunedì. La leader del Buon partito (Iyi Parti), Meral Aksener, aveva infatti annunciato l’uscita dalla coalizione e proposto che a guidare l’opposizione fosse o il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, o quello di Ankara, Mansur Yavas, entrambi del partito repubblicano.
Il primo però ha un processo in corso e in caso di condanna definitiva dovrebbe rinunciare a ogni incarico pubblico, mentre il secondo non riuscirebbe a ottenere l’appoggio dei curdi, il cui sostegno è particolarmente importante alle prossime urne. Per far tornare Aksener nei ranghi, è stato deciso di offrire a uno dei due sindaci la carica di vicepresidente in caso di vittoria, ma questa ennesima dimostrazione di debolezza dell’opposizione e i sondaggi non proprio favorevoli nei confronti del candidato presidente non lasciano presagire un cambio ai vertici del Paese.
A questa conclusione sembrano arrivati anche gli Emirati Arabi Uniti, che hanno firmato con la Turchia un patto che dovrebbe più che raddoppiare il volume degli scambi bilaterali, portandolo a quanta-quarantacinque miliardi di dollari entro i prossimi cinque anni. L’accordo però non ha solo una valenza commerciale, anzi si tratta un passo importante nel riavvicinamento dei due Stati, che in Libia hanno persino portato avanti uno scontro armato per procura. Gli Emirati, quindi, sembrano aver deciso che è meglio appoggiare un personaggio politico alle volte scomodo ma già noto piuttosto che attendere un cambio di governo che tarda ad arrivare.
L’opposizione ha ancora due mesi per attrarre elettori e far dimenticare quest’ultima crisi interna, ma le speranze di una Turchia senza Erdogan iniziano ad affievolirsi. Soprattutto se dall’altro lato vi è una coalizione che fatica a stare insieme ancora prima di arrivare al potere.