Dopo gli annunci, è arrivato il momento delle proposte concrete. La Commissione europea ha svelato due atti legislativi cruciali nella risposta europea all’Inflation Reduction Act, il programma di sussidi statali da 369 miliardi di dollari, con cui gli Stati Uniti sovvenzioneranno le aziende della cosiddetta «industria pulita» per incentivarle a produrre in territorio americano. Il Net Zero Industry Act e il Raw Material Act sono le due armi messe in campo dall’esecutivo comunitario, corredate da un piano per istituire una «banca dell’idrogeno europea» e dall’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato deciso una settimana fa.
Una spinta all’industria «pulita»
Il Net Zero Industry Act parte con un obiettivo ben preciso: produrre in Europa entro il 2030 il quaranta per cento delle tecnologie per la transizione ecologica di cui l’Ue ha bisogno, come turbine eoliche, pompe di calore, pannelli solari e strutture per estrarre idrogeno da fonti rinnovabili.
La legislazione presentata dai commissari al Mercato interno Thierry Breton e al Green Deal Frans Timmermans si focalizza soprattutto sulla possibilità di favorire gli investimenti nel settore riducendo burocrazia e processi di approvazione dei progetti.
Le aziende che operano in settori specifici dovrebbero beneficiare di un accesso facilitato al mercato e all’innovazione, con una piattaforma dedicata e una serie di «Net Zero Industry Academy».
Vantaggi riservati ai produttori di pannelli fotovoltaici, impianti eolici, batterie e sistemi di conservazione dell’energia, pompe di calore, impianti per l’energia geotermica o l’elettrolisi e infine strutture connesse alla trasmissione di energia, alla produzione di biogas, all’assorbimento di carbonio dall’atmosfera. In quest’ultimo caso c’è anche un obiettivo specifico messo nero su bianco: cinquanta milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno da immagazzinare a partire dal 2030.
Difficile, al momento, valutare lo stanziamento finanziario del Net Zero Industry Act: le misure proposte mirano infatti a «coordinare meccanismi di finanziamento già esistenti», come specifica la Commissione. Denaro «fresco» potrebbe arrivare dalla Banca europea per gli investimenti, ma «gli investimenti privati saranno essenziali», spiega l’esecutivo comunitario. Così come quelli a fondo perduto dei governi: di recente la Commissione aveva infatti deciso di mantenere allentate le regole comunitarie sugli aiuti di Stato, dando vita al Temporary Crisis and Transition Framework, un nuovo «regime speciale» per autorizzare maggiori contributi statali.
E poi ci sono ovviamente i fondi europei già stanziati, che considerati i rispettivi vincoli possono essere facilmente dirottati verso l’industria pulita: i Piani nazionali di ripresa e resilienza, i programmi InvestEu, i fondi per l’innovazione e quelli di coesione. Resta da vedere se e quando verrà proposto un nuovo fondo comune, l’European Sovereignty Fund già suggerito dalla Commissione e menzionato nell’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione di Ursula von der Leyen, ma ancora indefinito nei suoi dettagli concreti.
A contribuire agli obiettivi concorre pure l’istituzione di una «banca dell’idrogeno europea», con cui si punta a sovvenzionare un combustibile essenziale per la decarbonizzazione con l’obiettivo di produrne dieci milioni di tonnellate all’anno da fonti rinnovabili. La Commissione l’ha inserita per ora in una comunicazione destinata a Consiglio e Parlamento.
Accelerazione sulle materie prime critiche
L’altra branca legislativa riguarda le cosiddette «materie prime critiche», definizione che comprende un’ampia gamma di materiali di strategica importanza economica per l’Europa, caratterizzati allo stesso tempo da alti rischi di carenza nell’approvvigionamento.
Con il Raw Materials Act, l’esecutivo comunitario punta a ridurre la dipendenza europea nelle forniture, anche e soprattutto perché queste materie sono essenziali nello sviluppo delle tecnologie legate alla transizione ecologica.
Secondo le stime della Commissione, ad esempio, entro il 2030 aumenterà di dodici volte (ventuno entro il 2050) la domanda di litio, essenziale per costruire le batterie delle auto elettriche. Entro il 2030 sarà moltiplicata per cinque o sei volte, invece, la richiesta delle cosiddette «terre rare», diciassette elementi essenziali per costruire turbine eoliche e veicoli elettrici, al momento forniti dalla Cina per il novantotto per cento del totale delle importazioni.
La lista delle dipendenze è lunga: dal 63 per cento del cobalto estratto in Repubblica democratica del Congo (ma raffinato in Cina), al 71 per cento di platino importato dal Sudafrica, fino al 97 per cento del Magnesio proveniente dalla Cina e al 98 per cento del borato (sostanza cruciale per i fertilizzanti) dalla Turchia.
Il primo passo previsto dalla legislazione è stilare una lista delle «materie prime critiche» che siano «strategiche» per l’Ue: i sedici elementi contenuti nell’elenco «Strategic Raw Materials» presentato dalla Commissione sono stati scelti con un coefficiente che divide la domanda prevista di un determinato materiale per la produzione annuale dello stesso.
Per tutti quelli che vi rientrano, si fissano degli obiettivi precisi: estrarre sul suolo europeo almeno il dieci per cento e lavorare in Europa almeno il quaranta per cento del fabbisogno necessario, riciclare il quindici per cento delle materie prime critiche utilizzate e limitare la «dipendenza da fornitore unico», con una soglia del 65 per cento massimo proveniente da un Singolo Paese, applicata a ogni materiale.
Al fine di raggiungere tali traguardi sarà necessario identificare «progetti strategici» di estrazione o lavorazione negli Stati dell’Ue e in quelli partner, che beneficeranno di procedure di approvazione semplificate e tempi di attuazione prevedibili. Inoltre, si prevede un costante monitoraggio sulle catene di approvvigionamento, una spinta ai progetti di esplorazione mineraria, lo sviluppo di riserva nazionali per ogni materiale e la possibilità di istituire un «club delle materie prime critiche» con altri Paesi alleati del mondo: un’idea già avanzata di recente dalla presidente Ursula von der Leyen.
Ci sarà anche un comitato specifico sul tema, che dovrà riferire alla Commissione e facilitare il coordinamento tra gli Stati dell’Ue: sarà presieduto dalla Commissione stessa, ma comprenderà anche rappresentanti dei ventisette Paesi e deputati del Parlamento europeo.
Senza dimenticare la dimensione green della legislazione: aumentare estrazioni e processi industriali comporterà inevitabilmente un aumento di emissioni e dispendio di energia. Ma bisognerà anche ottimizzare i processi di recupero: prelevando i materiali dai prodotti finiti gettati e migliorando i processi di riciclo dei magneti costruiti con terre rare, con l’obiettivo di aumentare la percentuale di materia «riutilizzata» in ogni nuova produzione.
Il tutto mitigando gli impatti ambientali certi delle nuove miniere e quelli possibili sui diritti dei lavoratori, magari con modelli di certificazione che garantiscano la presenza di materie prime critiche «sostenibili» sul mercato europeo.
Non una sfida facile, quella di spostare in Europa estrazione di materiali e produzione di tecnologie necessarie alla transizione ecologica: ma da come l’Ue la affronterà dipende il futuro del Green Deal e probabilmente dell’Unione stessa.