Mi piacerebbe inaugurare una modalità accogliente per quest’epoca di lettori analfabeti ai quali dopo due righe s’abbiocca la concentrazione. Una modalità in cui, nelle prime due righe, c’è il senso di tutto l’articolo (modalità che piacerebbe moltissimo anche ai seo che indicizzano gli articoli con criteri giustamente adeguati all’imbecillità dei lettori-non-lettori).
Secondo questa modalità, che non so però per quanti giorni avrò la pazienza di portare avanti (la mia capacità di ricordarmi dei buoni propositi è commisurata a quella dei lettori di capire gli articoli), le prime due righe di questo articolo dovrebbero essere: la civiltà è andata a meretrici quando abbiamo iniziato a chiamare le buone maniere «ipocrisia».
Oggi sono dieci anni dalla morte di Margaret Thatcher e, poiché la vita è sceneggiatrice, il ricovero di Silvio Berlusconi ha scatenato esattamente le stesse dinamiche. Thatcher muore nell’anno in cui compirebbe ottantotto anni; Berlusconi viene ricoverato nell’anno in cui ne compirà ottantasette. Per entrambi, la mia derelitta generazione mai uscita dall’assemblea d’istituto (e quelle successive, che sono persino peggio quanto a scarsezza dialettica e immaturità) ritiene di dover comunicare al mondo quant’è contenta della morte o quasi morte dell’avversario politico.
Che non è mica avversario politico, naturalmente: è incarnazione del male con un livello di complessità da cartoni animati (adesso mi diranno che i cartoni animati sono una sofisticatissima forma espressiva, tanto per completare il quadro della loro perpetua sedicennitudine).
La settimana in cui morì la Thatcher, scrissi su un blog che non esiste più del mio trovare buffo il fatto che i miei coetanei «vibrino di sdegno al ricordo delle politiche thatcheriane (quello che la psicanalisi definirebbe un falso ricordo, visto che le suddette politiche erano in essere quando loro ancora dovevano aspettare tre ore dopo mangiato prima di fare il bagno), empatizzino come fossero stati minatori in sciopero quando sono rigorosamente gente che è stata fuori corso fino a trentacinque anni e cui la mamma non ha mai smesso di passare la paghetta e, quel che è più esilarante, abbiano pronta la riduzione a un dittatore qualunque se obietti in tal senso: “Mica devi esser stato partigiano per disprezzare Hitler”».
Ieri, girando su Twitter, c’era uno che diceva che Berlusconi è stato peggio di Bin Laden, e io veramente non so da dove cominciare con questa gente che una volta non avrei incrociato e la cui imbecillità ora l’internet mi costringe a constatare quotidianamente – dandomi in cambio la pizza a domicilio, sì, ma a volte quasi penso che sarebbe meglio dover ricominciare a cucinare, se in cambio tornasse la civiltà della conversazione.
L’altroieri un’adulta di cui non faremo il nome ha scritto un tweet in cui si felicitava per l’imminente decesso di Berlusconi. È successo un putiferio francamente sproporzionato rispetto all’impatto culturale e di fama della signora, perché nel Grande Indifferenziato è tutto, appunto, uguale, e l’urgenza della signora di sentirsi spiritosa e di sinistra si specchia nell’urgenza degli altri di dirle «vergogna, puntesclamativo» come fossero tutti il Gabibbo.
In cui che la signora «ha pubblicato con Mondadori» viene puntesclamativato con l’enfasi che si userebbe se questo significasse qualcosa: viviamo in un posto in cui un libro l’ha pubblicato pure il mio portiere, non è che si possa dar retta a chiunque abbia pubblicato un libro come fosse Umberto Eco.
Una pletora di giornalisti televisivi ha rilanciato la foto del tweet (che l’autrice aveva nel frattempo cancellato), e io da due giorni mi chiedo: chi è più imbecille?
L’adulta che sente l’urgenza espressiva di dirsi felice perché muore uno che manco ha mai incontrato, o l’adulto che le risponde vergogna, non si augura la morte a nessuno, e quasi certamente venti minuti prima ha augurato la morte a uno che gli ha fregato il parcheggio?
L’adulta che prova qualcosa – qualunque cosa: sollievo, gioia, rivalsa – rispetto alla morte d’un tizio che ha vissuto a lungo e bene e ignaro della di lei esistenza, o l’adulto che si agita dicendo bisogna scrivere a Mondadori, devono sapere, devono stracciarle il contratto?
L’adulta che invece di dire agli amici «ahò, a me sta antipatico e son contenta se muore» lo dice – giacché qualche sortilegio ci ha convinti che dobbiamo dire in pubblico tutto tutto tutto quel che diremmo in privato, altrimenti siamo ipocriti – a decine di migliaia di sconosciuti? Gli sconosciuti che le dicono «vergogna, hai anche lavorato per Mediaset»? Gli sconosciuti che per difenderla dicono «eh ma come si fa a non aver lavorato per Berlusconi se hai lavorato nella cultura in questo paese»?
È una gara di imbecillità che avrebbe fatto scrivere a Fruttero&Lucentini un quarto volume della saga dei cretini, e il fatto che “La prevalenza del cretino” fosse uscito trentotto anni fa rende drammaticamente evidente che le dinamiche sociali sono ormai solo copie di mille riassunti (d’altra parte lo sono almeno dai tempi di Balzac, ma finché gli imbecilli non ci arrivavano in forma di notifica sul telefono lo notavamo meno).
Il ricatto «eh ma non si può non lavorare per Berlusconi» mi pare il più divertente, forse perché mi ricorda «eh ma se non l’avesse data a Harvey Weinstein la sua carriera sarebbe finita»: siamo l’epoca che ha deciso che per difendere una scelta sia necessario dire imbecillità indifendibili. Non finì la carriera di Sandro Veronesi quando smise di pubblicare con Mondadori, non finirono le carriere della Paltrow o della Jolie quando non vollero più avere a che fare con Weinstein: né a Hollywood né in Italia c’è mai stato un monopolio del mondo dello spettacolo o dell’editoria, checché ci abbiano raccontato retori pigri.
Se proprio si vuole difendere il proprio diritto a lavorare per un editore che si disprezza, mi pare che l’unico modo non imbecille sia quello di Paolo Rossi che, più di trent’anni fa, a obiezioni sofisticate quali «fai il comunista e poi prendi i soldi da Fininvest», rispondeva: non è chi te li dà, è come li spendi.
Ma, in generale, vale il fatto che non c’è bisogno di dire al mondo le cose maleducate che dici ai tuoi amici a cena. Giuro. Non è trasparenza: è cafonaggine. Ve lo dico da cafona d’un certo livello, ma da cafona abbastanza adulta da essere cafona per scelta, non per distrazione né per malintesa sincerità.
Non ho tuttavia ancora risposta alla domanda su quale sia la cretineria che prevale in questa gara serratissima, e non è solo perché, come diceva la canzone, risposta non c’è nelle parole. È perché, oggi come dieci anni fa, non ho capito di cosa esultino coloro che sentono che la loro vita migliorerà a Berlusconi morto. Fosse morto giovane. Fosse morto nel pieno del potere. Ma, se dovesse morire oggi, o quandunque morirà dopodomani, somiglierà parecchio alla morte della Thatcher ottantasettenne in un letto dell’hotel Ritz. Scusate se mi cito di nuovo, ma «si può sapere di cosa esulti? Della morte tout court? Ti è chiaro, sì, che non ne sei esentato? Che moriremo pure noi, non so se più giovani ma probabilmente alla pensione Miramare?».