Asseconda il puccettoneIl successo di Stefania Andreoli è il segno del tempo in cui viviamo (e della mia invidia)

Il libro della psicologa dell’Instagram ha venduto decine di migliaia di copie perché lei sa come trattare i suoi pazienti e i suoi follower: non dice loro che sono un mucchio di rincoglioniti, gli dà ragione e basta

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Comincerei dalla matematica, per la gioia di Rishi Sunak. Comincerei da che numeri ci siano dietro a un numero uno. Il numero uno, tra i libri che vedrete domani nella classifica dei più venduti sugli inserti culturali dei quotidiani, ha venduto nei primi sei giorni in libreria diciottomilatrecentottantasette copie.

Per darci delle misure: Carrère nella stessa settimana ne ha vendute poco più di quattromila. Per darci delle misure: le diciottomilaespicci copie del primo posto sono, per Rizzoli che le pubblica, trecentomila euro lordi. Per darci delle misure: il libro precedente della stessa autrice, Stefania Andreoli, uscito cinquantatré settimane fa, la prima settimana aveva raggiunto il ragguardevole venduto di seimilaseicentocinquantatré copie (allora era quinta e non prima); attualmente è a cinquantamila: le moltiplicazioni fatele voi.

Stefania Andreoli è una psicologa dell’Instagram, anche se Rizzoli sceglie di promuoverla come ospite fissa del Corriere e del programma radiofonico di Alessandro Cattelan. È una di quelle (sono tantissime, e più efficaci dei maschi che fanno lo stesso mestiere) che usano Instagram come fosse la vetrina d’una pasticceria e uno studio professionale. Guardatemi, sono qui, sono caruccia, la giacca è di Tizio e il lucidalabbra di Caio, e ora sotto con le domande: tuo figlio minaccia d’andarsene di casa se non lasci che si tatui un teschio in fronte? Hai provato ad ascoltarlo?

Ci sono molte angolazioni da cui prendere la figura di Stefania Andreoli e il suo successo come simbolo del tempo che abitiamo, e io sceglierò quella che più faccia sbrilluccicare la mia sbavante invidia: come si costruisce un prodotto di successo?

Il libro più venduto in Italia la scorsa settimana s’intitola “Perfetti o felici – Diventare adulti in un’epoca di smarrimento”, ed esce nel periodo in cui almeno una volta a settimana qualche studente universitario del paese nelle cui università puoi prendere 30 senza saper leggere e scrivere ci spiega che lo stiamo soffocando con la nostra smania di performatività. Nessuno, mai, risponde ma chi ma cosa ma quando ma smettila di parlare come vivessi a Tokyo.

Ricopio dal libro più venduto eccetera: «Quando anche su Instagram mi è capitato di accennare a cosa avrei trattato nel mio nuovo libro, sono stata raggiunta da moltissimi messaggi il cui tenore più o meno era: Doc, io di anni ne ho trentasei e la vita adulta non fa per me, parlerà anche di questo?; oppure: Doc, e se qualcuno ha quarant’anni e come me sente di non essere ancora maturato, si può dire che sia ancora un giovane adulto?».

Ho visto i dati di vendita della cronaca di questi adulti riluttanti qualche minuto dopo aver mandato in stampa un libro uno dei cui capitoli s’intitola Puccettoni perpetui, perché io su Instagram non dico mai ai «giovani adulti» che intendo scrivere del loro dolore (al massimo dico che mi devono dare del lei) e quindi loro non mi svelano che abitano in quel vecchio film in cui Renato Pozzetto poteva stare nella stanza dei giocattoli pur avendo quarant’anni, ma com’è fatto il mondo lo vedo.

Lo vedo anch’io, come la Andreoli, ma io non riesco ad assecondarlo. La più intelligente tra le mie amiche tempo fa m’ha detto d’aver smesso la psicoterapia perché si era accorta che stava pagando una persona per, qualunque cosa le raccontasse, darle ragione (la mia amica è ricca, quindi è già piena di gente pronta a darle ragione; se uno non è in una posizione di forza, capisco la tentazione di farsi dare ragione a pagamento, come momento di pausa in una giornata in cui le persone intorno a te la cosa più gentile che ti dicono è «porta giù l’umido»).

Ogni tanto vado a guardare l’Instagram della Andreoli (non spesso perché è una di quelle che postano tantissime storie e serve avere tempo da dedicarle). Una volta, non molto tempo fa, c’erano delle storie che mi hanno ispirato un rigo di quel libro in cui ci sono anche i puccettoni perpetui, quello che venderà un cinquantesimo del suo. Qualcuno le aveva scritto che insomma, perché deve per forza andare a prendere i figli a scuola, la scuola è vicinissima, potrebbero tranquillamente tornare da soli.

La Andreoli aveva risposto secca qualcosa come: veda lei, c’è una legge. E fin lì non mi aveva colpito: in effetti c’è una legge che dice che se non vai a riprendere tuo figlio a scuola è abbandono di minore, è una legge fessa ma non è che una psicologa possa incitare a infrangere le leggi. Poi però era una successa una cosa, da cui avevo capito il successo suo e l’insuccesso mio.

La Andreoli aveva iniziato a pubblicare i messaggi che le arrivavano a commento di quella storia. Erano messaggi incredibili, intrisi di spirito del tempo persino più di quanto lo siano i video degli studenti che senza mettersi a ridere sostengono di pensare al suicidio perché gli esami a Lettere sono troppo difficili.

Erano messaggi di adulti che raccontavano come momenti traumatici e cupi e mai rimossi e devastantemente dolorosi quelli in cui tornavano a scuola da soli, abbandonati dai grandi in un mondo che non erano pronti per affrontare.

È ovvio che vent’anni fa nessuno avrebbe detto una puttanata del genere, è ovvio che quarant’anni fa a tornare a casa da soli ci sentissimo beati e indipendenti, ma: è nato prima l’uovo o la gallina? E cioè: sono nati prima i social, e la loro vittimizzazione performativa, o la nostra smania di piangerci addosso, che poi ha semplicemente trovato nel telefono con la telecamera un canale d’espressione?

Negli anni Ottanta c’era uno spot delle Pagine gialle in cui un bambino, vedendo in tv il padre che non vinceva una gara di corsa, cercava un posto dove incidessero targhe, e andava a comprargli una coppa con incisa non so quale menzognera vittoria. Quando il padre rincasava (e, se per tornare dalla gara ci metteva abbastanza tempo da essersi il piccino nel frattempo incidere la targhetta sulla coppa, mi sembra ovvio fosse intanto andato a meretrici), il figlio gli consegnava il premio dicendogli «Sei sempre il mio campione, papà». Mi faceva piangere tantissimo. Credevo fosse per il sentimentalismo, e invece era perché vedevo il futuro.

Un futuro di gente che non è più tutte le cose che erano ovvie negli anni Ottanta – competitiva, efficiente, vogliosa di migliorarsi: è o non è la citazione cinematografica più famosa di quegli anni «Greed is, for lack of a better word, good»? – ma si piange addosso e si compra da sola premi di consolazione che ne certifichino vittorie mai avvenute e traumi mai subiti.

Puoi fare la psicologa dicendo ai pazienti fatti a forma del tempo in cui li ricevi che sono un mucchio di rincoglioniti? Certo che no. Puoi solo assecondarli. Puoi solo lisciare il pelo del paziente e lo spirito del tempo, e dire che certo, la mamma che ti diceva che forse potevi fare da solo quei duecento metri da scuola ti ha traumatizzato per sempre.

Per puro caso, è lo stesso metodo con cui oggi si ha successo in tutti i mestieri che hanno a che fare con la parola: ogni volta che la Andreoli scrive che non ascoltiamo abbastanza i giovani adulti che ci spiegano come si potrebbe vivere, mi venivano in mente gli editorialisti secondo cui dobbiamo dare più retta agli intelligentissimi e sensibilissimi imbrattatori di monumenti.

Hanno ragione (la Andreoli e gli editorialisti, non gli imbrattatori di monumenti)? Certo che sì. Chi ha successo ha ragione. Chi fattura ha ragione. Chi vende diciottomila copie a settimana ha ragione. E, quel che è più importante, ha la mia invidia.

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