Little OdessaIl quartiere di New York che da quarant’anni ospita russi e ucraini scappati dall’Unione Sovietica

Attraversando Brighton Beach, a Brooklyn, si ha la sensazione di passeggiare in una cittadina dell’Est Europa, abitata da chi è fuggito da Mosca e Kyjiv per scampare alla repressione del Cremlino

Credits: Riccardo Romani

La frontiera sorge all’altezza della fermata di Sheepshead Bay, Brooklyn. Sul treno della linea B della metropolitana di New York però non sale alcuna guardia di confine. È sufficiente soffermarsi sul paesaggio per sentirsi proiettati in un’altra latitudine. Le scritte in inglese spariscono, persino gli sportelli bancomat hanno le indicazioni in cirillico, le case basse evocano convivenze multiple, sopra i tetti, molti ancora di legno, si inalberano lunghe bave di fumo nero. Brighton Beach, la più grande enclave ex Sovietica al mondo. Scendi per strada e la metà di quelli cui provi a chiedere un’informazione, non parla inglese. Manhattan, una ventina di chilometri a nord, sembra separata da otto ore di fuso orario.

La radio locale si chiama Freedom, un dj con un forte accento est europeo si spertica con i suoi ascoltatori: «Siamo orgogliosi delle nostre origini e della nostra cultura russa. Noi immigrati non abbiamo nulla a che fare con le decisioni che prendono al Cremlino». E subito dopo parte un pezzo di Toto Cutugno che da queste party va più forte di Lady Gaga.

Sono mezzo milione i russi arrivati negli Stati Uniti negli ultimi quarant’anni, centosessantamila si sono stabiliti a New York, la maggioranza proprio a Brighton Beach. O almeno, così si definivano per praticità gli immigrati arrivati dai cocci dell’Unione Sovietica. Anton, proprietario di un ristorante georgiano su Ocean Parkway, lo spiega bene: «Chi arrivava in America dalle vecchie Repubbliche, non andava per il sottile. Sono russo, diceva, anche se poi come me veniva dalla Georgia o dalla Cecenia. Con gli americani meglio metterla giù facile. Gli unici che ci hanno sempre tenuto a distinguersi sono gli ucraini, anche se poi tra noi si parla sempre il russo. Cos’è cambiato dal febbraio dell’anno scorso? Adesso quando mi chiedono da dove provengo non dico più che sono russo, sono georgiano».

Credits: Riccardo Romani

Il 24 febbraio 2022 qui a Brighton Beach non è stato vissuto come un trauma. Ucraini e russi vivono uno attaccato all’altro da decenni, le bombe osservate alla tv hanno risvegliato appena antichi dissapori e, come mi racconta Inga, un’infermiera arrivata a New York da Kyjiv a inizio anni Novanta, «che Putin sia un fascista è assodato, ma qui nessuno qui osa chiamarti nemico, qui siamo tutti vicini di casa, a prescindere dalla nazionalità».

Certo, non è che si può fare finta di nulla: «Ci sono discussioni anche accese tra noi, scontri da bar, per così dire, ma portiamo i figli a giocare nella stessa squadra, ci frequentiamo da anni, non ha senso essere ostili l’uno con l’altro. Da inizio guerra abbiamo creato un comitato per raccogliere aiuti e ricevere profughi. Ne sono arrivati un migliaio dall’anno scorso. Del comitato fanno parte molti russi. Essere contro la guerra non dovrebbe dipendere dal simbolo che esponi».

Credits: Riccardo Romani

Vero, ma tanto per stare dalla parte del sicuro, un celebre negozio di specialità russe, Taste of Russia, ha ammainato la storica insegna ed ha appeso una bandiera ucraina in vetrina. Una delle proprietarie, Elena Rakhman, si giustifica così: «Specie all’inizio del conflitto quell’insegna poteva ferire la sensibilità di qualcuno. Ho avuto clienti che non si sentivano a loro agio a fare la spesa qui ma anche impiegati che sono ucraini ed hanno sofferto perdite in Patria».

Lungo il celebre lungomare che ha regalato a questo lembo di Brooklyn il meritato appellativo di Little Odessa, prevale la tonalità grigio per dieci mesi l’anno. Ci incontriamo Yelena – immigrata da Kyjv nel 1989 – che gestisce un’associazione per il sostegno della comunità LGBTQ+ di lingua russa: «Viviamo un tempo sospeso. Le conversazioni sono molto caute, si cerca di non urtare la sensibilità altrui. Ma si cerca di andare avanti, abbiamo smesso di definirci un’associazione soltanto per persone di lingua russa, ma nessuno qui può essere considerato colpevole. Siamo tutti responsabili e anche dal nostro comportamento può dipendere il raggiungimento della pace».

Credits: Riccardo Romani

Un’altra Yelena, Makhnin, è una sorta di presidente della camera di Commercio per aziende locali di lingua russa: «Se resterà con noi per una settimana si accorgerà che questa zona è una ricostruzione in miniatura delle Nazioni Unite. Certo, ci sono opinioni difformi, ci sono persone che pur essendo contrarie alla guerra non sono sicure di chi l’abbia fatta iniziare. Però quando scoppiò il conflitto qua sono scesi per strada in migliaia a manifestare per la pace. E nessuno si è messo a contare quanti fossero russi e quanti ucraini».

Dereka, insegnante poco più che trentenne, mette in guardia su di un pericolo esistente: «Quelli che chiedono – ad esempio – di togliere Tchaikovsky dai piani di studio, sono accecati da un’ira illogica. Rischiamo di fare come durante il Covid, quando la comunità cinese di New York venne criminalizzata per colpe non sue».

Forse varrebbe la pena portare i contendenti a sedersi ad un tavolo di fronte all’Oceano Atlantico che tanto assomiglia al Mar Nero. Ma il giovane Alex, studente russo arrivato qui – e poi rimasto – una quindicina di anni fa, non è così ottimista: «Credimi, un sacco di noi guardano la tv russa e sono convinti che Putin sia dalla parte della ragione. Magari non lo dicono apertamente ma se facessimo un sondaggio segreto saresti stupito dal risultato. Se ucraini e russi qui convivono senza troppi problemi è perché conoscono bene la storia, sanno che ci sono dissidi inevitabili e uomini di potere, come Putin, che fanno il buono e il cattivo tempo da secoli. Prevale il fatalismo. E la pigrizia: ci vuole un bel coraggio a credere tutte le panzane che la tv russa racconta ogni sera».

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