Di che cosa si ride quando non c’è la selezione all’ingresso? Se la comicità ha bisogno d’un codice comune, forse la gratuità la uccide: è abbastanza naturale che i social siano il regno delle battute non comprese, considerato che sono il luogo in cui ti passa davanti roba che non hai mai scelto di leggere.
E infatti sono anche, i social, il luogo in cui ha un senso Khaby Lame, che fa le facce buffe e non serve cultura condivisa (non serve cultura tout court) per comprendere cosa ci sia da ridere. Sono anche i luoghi che sempre più diventano di video, disegnetti, codici ipersemplificati, e sempre meno di parole. Eppure sono un luogo sul quale, più o meno frequentemente, si affacciano tutti i comici che provano a fare ragionamenti d’una qualche complessità sul presente.
Poco prima di andare a teatro a vedere “Salutava sempre”, lo spettacolo di Alessandro Cattelan, avevo guardato due video di Louis CK. (Se Cattelan dovesse affacciarsi a sbirciare quest’articolo, vorrei evitargli un attacco di panico: non mi accingo a paragonarlo a CK).
I video erano due parti tagliate dell’ultimo monologo che ha messo in vendita, e in una parlava del posizionamento dei negozi che in vetrina hanno i cartelli «no hate». Che è – chi ha visto “Selective Outrage”, ma pure chi ha solo letto i miei articoli, lo sa – un tema del monologo di Chris Rock. Lui la chiude con «vendete pantaloni da yoga da cento dollari, qualcuno che odiate c’è: i poveri», CK con un più debole «non ho mai risolto l’odio per mio padre, devo restare fuori finché non mi passa?», ma il dettaglio che hanno notato due dei più rilevanti comici del mondo è lo stesso.
D’altra parte un altro comico non esattamente scalzacani, Ricky Gervais, dice che a Michael Jackson perdoniamo tutto perché ha fatto canzoni più irresistibili di altri pedofili, che è la stessa cosa che dice Rock, e non so neanche chi dei due l’abbia detta su un palco per primo; però Rock è andato su Netflix prima, e vale solo questo: vale quel che al pubblico passa davanti mentre sta lì inerte sul divano, mica quel che sceglie di andare a guardare pagando il biglietto.
Se paghi il biglietto sei l’unico pubblico selezionato che sia rimasto, e questo – ora quelli che fanno teatro mi mandano dei picchiatori – rende il lavoro sul palcoscenico vertiginosamente più facile di quello in uno studio televisivo.
Chi ha pagato è già dalla tua parte, non devi conquistarlo. Chi ha pagato resta lì anche se non capisce: a un certo punto Cattelan dice «sapete cos’è il pensiero magico?», e dalla platea parte un compatto «no», e io non so tutte quelle Allende nelle librerie del pubblico non particolarmente colto cosa ci stiano a fare, non so cosa possa leggere o ascoltare capendolo un pubblico cui mancano così tanto le basi.
Ma non importa. Non importano le tizie di cui Cattelan perde l’attenzione quando cita l’instagram della moglie, e le due a quel punto si mettono a cercarla, e passano alcuni quarti d’ora ad ammirarne le foto (signora Cattelan, la fila 8 del pubblico bolognese la trova molto bella, le farà piacere saperlo).
Non importano i tizi che, a un riferimento alle scarpe da ginnastica, si mettono a cercare quali Nike indossi Cattelan, e sono molto più interessati a quello che a stare ad ascoltare uno che gli sta dicendo che non capiscono nientissimo (citazione a memoria: non abbiamo ancora capito se il cartone della pizza va nella carta o nell’indifferenziato, ma se ci chiedono come salvare il mondo non abbiamo dubbi).
Non importa che non capiscano talmente niente che neanche intuiscono che quello gli stia mettendo davanti uno specchio acciocché si rendano conto di tutto quel che non sanno: quando, elencando le cose su cui ci vengono chiesti pareri che non siamo in grado di esprimere, Cattelan chiede «La farina di grillo è una minaccia per la nostra civiltà?», quella seduta dietro di me la prende per una vera domanda, e risponde perentoria: sì.
Non importa, perché nessuno che abbia pagato un biglietto è disposto a dare a sé stesso del coglione e tutti diranno che lo spettacolo era bellissimo, e nessuno chiederà loro quale delle due parti hollywoodiane abbiano apprezzato.
A Hollywood dicono: one for me, one for them. Metà delle cose che la società dello spettacolo fa, le fa perché le va; l’altra metà, perché sa che funzioneranno con il pubblico.
Cattelan, che (come tutti i televisivi) passerà il tempo a sentirsi dire dagli autori «questo è troppo stretto», non ci può credere che quelli dentro al teatro ormai siano lì e si faranno piacere anche le cose che piacciono a lui, che si riconoscono facilmente: a un certo punto c’è un notevole minuto che si conclude con la constatazione che la cosa più ambientalista che si possa fare è ammazzare sette milioni di ambientalisti.
Quindi dà, a un pubblico fatto di noialtri cui non interessano i ragionamenti sofisticati, vogliamo solo specchiarci nelle piccole cose che accadono anche a noi, anche il dramma del jeans messo in lavatrice dimenticando un kleenex in tasca o del trolley che non entra nella cappelliera in aereo.
Sono sicura di averlo già scritto in passato: si fanno fantastiliardi parlando delle piccole cose che il pubblico riconosce, Sebastian Maniscalco con le battute sulla suocera e sul cibo sugli aerei riempie più teatri di Dave Chappelle che prova a farci ragionare sul presente.
«Che cosa pensate di ottenere inviando una foto del cazzo?»: forse il punto di equilibrio sta nel mezzo, nel prendere un fenomeno sociale così rilevante che lo conoscono anche quelle che non hanno mai letto la Allende (ma, statisticamente, hanno ricevuto qualche impresentabile foto di bigolo da qualche mitomane convinto che il suo bigolo sia un bell’oggetto). E nel riservargli un trattamento così spietatamente ridicolizzante – «Sei lì, sul divano, guardi la tv, Caracciolo parla dell’Ucraina, e pensi sai che c’è, mi faccio una foto al cazzo» – che il pubblico riderà pensando che tu stia parlando del suo vicino di posto, e che di lui invece nessuno nessuno nessuno possa sospettare che s’autoscatti il bigolo. Di me, s’illude il pubblico soddisfatto, pagante e no, non si ride.