Sul tema del cambiamento climatico e del surriscaldamento globale potremmo esserci persi alcuni passaggi o non aver capito certi tecnicismi. Una cosa, però, con molta probabilità è chiara anche a chi legge poco o ascolta distrattamente le notizie in radio o tv: se vogliamo raggiungere gli obiettivi prefissati dall’accordo di Parigi del 2015, dobbiamo disfarci dell’anidride carbonica (CO2), o perlomeno, produrne meno di quanta riusciamo a “smaltirne”. Si chiama neutralità carbonica, e l’Unione europea, gli Stati Uniti e altri Paesi vogliono raggiungerla entro il 2050).
Riforestare è uno dei modi più naturali e immediati per sottrarre anidride carbonica all’atmosfera. Le aziende, in particolare, se ne servono per compensare l’impatto ambientale delle loro attività, con il rischio che piantare alberi si riveli un escamotage per inquinare ancora di più. Tenendo presente che gli arbusti non diventano grandi da un giorno all’altro – e che quindi la loro capacità di assorbire CO2 matura nel tempo – e che se bruciano rilasciano nell’atmosfera tutto ciò che hanno immagazzinato, neppure ricoprendo tutto il globo di piante saremmo in grado di smaltire ogni particella di carbonio.
La strategia, a questo punto, va implementata con metodi di rimozione alternativi. Fra questi, uno dei più noti è la Carbon capture and storage (Ccs), un processo che prevede la cattura e lo stoccaggio permanente della CO2 in formazioni geologiche, in pozzi esauriti di petrolio o in gas presenti sottoterra, attraverso una serie di tecnologie e fasi. Una tecnica ritenuta necessaria per limitare l’aumento della temperatura globale persino da organizzazioni come l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) e il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc).
La cattura della CO2, che rappresenta solo il primo punto del processo, può avvenire principalmente in pre-combustione (quando un combustibile fossile come il petrolio viene decarbonizzato prima dell’utilizzo) o in post-combustione (dopo che il combustibile ha prodotto energia e quindi è stato bruciato). È solo a questo punto, dopo il trasporto del gas (trasformato in materiale liquido) sul sito d’interesse, che il processo di stoccaggio prende forma.
Solitamente la destinazione finale è il sottosuolo, in cui “grazie” ad anni di estrazioni di combustibili fossili sappiamo muoverci piuttosto bene – alcune aziende petrolifere iniettano l’anidride carbonica nei pozzi petroliferi per portare in superficie una maggiore quantità di greggio.
L’obiettivo numero uno dello stoccaggio è intrappolare per millenni la CO2 sottoterra. Ma le cose potrebbero andare diversamente, e questo è solo uno dei rischi. Premessa: l’efficacia della Ccs è uno dei temi più divisivi di sempre. Il timore più grande è che tali serbatoi sotterranei si rivelino non così permanenti come sperato. E che quindi la CO2 possa fuoriuscire, immettendosi nell’aria circostante o contaminando le riserve idriche vicine.
Un’ipotesi che i sostenitori reputano alquanto improbabile, portando come esempio virtuoso quello degli idrocarburi, rimasti sottoterra per milioni di anni. Lo stesso, a loro parere, succederà per l’anidride carbonica, per cui tra l’altro è prevista una selezione accurata del sito di iniezione.
Per gli oppositori, il problema della frattura della crosta terrestre è relativo, visto che le scosse potrebbero essere provocate dall’uomo a prescindere dalla predisposizione del terreno, per via dell’accumulo di pressione nel sottosuolo (sismicità indotta). E poi c’è la questione dei costi, che ad oggi risultano ancora piuttosto elevati soprattutto per via del prezzo alto dell’energia impiegata per far funzionare gli impianti di stoccaggio.
Certo, più il mercato si espanderà e le tecnologie avanzeranno, più le tariffe probabilmente si abbasseranno, ma la verità è che il processo avanza ancora a rilento anche perché non porta in sé grossi guadagni di ritorno. Tuttavia, a prescindere dagli introiti, si teme che tale approccio possa incentivare ulteriormente l’uso di combustibili fossili a scapito delle fonti di energia rinnovabili.
Preoccupazione espressa da alcune associazioni ambientaliste, per cui il Ccs, più che togliere la CO2 dall’ambiente, la nasconderebbe sotto al tappeto, favorendo ancora una volta le aziende fossili. A questo punto, a loro dire, la soluzione migliore sarebbe abbattere le emissioni alla fonte. «Del resto – come ha scritto il Wwf in un report sullo stoccaggio, «nemmeno dopo aver ricevuto sussidi pubblici considerevoli la relativa filiera si è attivata in modo promettente, ed è inopportuno indirizzarvi nuove risorse pubbliche, soprattutto in relazione a progetti di dimensione commerciale».
Ma non ci sono alternative, almeno secondo i sostenitori del Ccs. O meglio, il processo più auspicabile è che si possa sì passare a utilizzare energia pulita, ma in attesa di un’espansione su larga scala delle rinnovabili c’è bisogno di ridurre la CO2, in qualsiasi modo. Altrimenti sarebbe impossibile raggiungere i vari target climatici. Ben venga se la strada intrapresa, poi, permetta alle industrie ad alta intensità energetica di continuare a funzionare, garantendo tra l’altro la sopravvivenza di migliaia di posti di lavoro.
È lecito che le domande da una parte e dall’altra, attorno a questo tema, continuino a sorgere. La realtà dei fatti è che intanto ci sono Paesi che hanno deciso di investire in questa tecnologia. Come la Danimarca, che con il progetto Greensand è diventato il primo Paese a sotterrare la sua CO2 in un territorio diverso dal proprio. L’anidride carbonica verrà infatti trasportata in Belgio e iniettata in un giacimento petrolifero esaurito sotto il Mare del Nord danese – risultato idoneo dopo varie analisi. In questo modo si conta di togliere dall’atmosfera fino a otto milioni di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030.
In questa direzione si è mosso anche il ministero dell’Industria giapponese, che ha l’obiettivo di stoccare da sei a dodici milioni di tonnellate all’anno di CO2 entro il 2030, seppellendola principalmente in miniere di carbone in disuso. In questo modo le emissioni del Paese dovrebbero praticamente dimezzarsi rispetto a dieci anni fa.
Quella di confinare i gas nei fondali oceanici o nella roccia non è l’unica modalità di stoccaggio fino ad ora pensata. La startup Heirloom Carbon Technologies vuole utilizzare la CO2 in sostituzione del cemento, imprigionandola nel calcestruzzo. In questo modo l’anidride carbonica non finisce sottoterra e, allo stesso tempo, l’impronta carbonica di un materiale così usato e indispensabile nell’edilizia quanto dannoso – il cemento è responsabile dell’otto per cento delle emissioni globali – si riduce.
Di progetti come questi, nel mondo, ne esistono a decine. Ma, stando alle dichiarazioni rilasciate alla Bbc da Ajay Gambhir, ricercatore del Graham institute for climate change and the environment, «non possiamo permetterci di fare affidamento solo su queste tecnologie. Sono certamente molto interessanti, e dobbiamo continuare a lavorarci sodo e assicurarci che diventino competitive in termini di costi e di prestazioni entro questo decennio. Ma allo stesso tempo dobbiamo continuare a ridurre le emissioni il più velocemente possibile».