Economia della biodiversitàLa crisi climatica sta rendendo i rapporti uomo-animale sempre più conflittuali

Il caso del runner in Val di Sole ha riacceso l’attenzione su un problema ampio e che non si risolve con misure che cavalcano l’onda emotiva. L’emergenza ambientale, però, impone anche soluzioni nel breve periodo: «Dobbiamo mantenere il più possibile la distanza tra uomo e animale, utilizzando anche dei dissuasori se necessario», spiega lo zoologo Davide Rufino

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La crisi climatica esaspera la convivenza uomo-animale, con conflitti insostenibili per entrambe le specie. Un tema che si è riacceso dopo che in Trentino, in un bosco della Val di Sole, un ragazzo di ventisei anni è stato aggredito e ucciso da un orso mentre tornava da una corsa in montagna. 

Secondo un recente studio di Nature, che ha analizzato cinquanta specie selvatiche la cui dimensione e distribuzione geografica si è espansa negli ultimi quarant’anni, il surriscaldamento globale sta complicando sempre più i rapporti tra persone e animali, soprattutto (ma non solo) nei centri urbani. Se cinghiali, volpi e gabbiani si avventurano nelle grandi città, ciò non succede solo per la mancata raccolta dei rifiuti, ma per diverse motivazioni, sempre riconducibili all’uomo. 

«È luogo comune che i cinghiali scendano in città perché non trovino più cibo nei boschi. In realtà, visto lo spopolamento delle campagne e delle montagne, le aree boschive stanno anche aumentando. Gli animali sono opportunisti, se hanno l’occasione di vivere meglio ne approfittano, proprio come noi», spiega a Linkiesta Davide Rufino, zoologo ed esperto di Scienze naturali.

Lo studio di Nature approfondisce gli ultimi trent’anni di convivenza, scoprendo che, da una parte, i conflitti tra uomo e animali «interrompono sia i mezzi di sussistenza per le economie industriali». Dall’altra, «possono accelerare la velocità con cui si verifica il declino della fauna selvatica». 

La scomparsa di certi animali in natura, così come la diffusione di altri fuori dagli habitat originari, può davvero creare problemi anche in termini socio-economici. Non è un caso che il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida, abbia recentemente posto l’attenzione per esempio sull’«eccessiva presenza» di orsi e lupi in Italia, capace di «creare squilibri alla salute pubblica e ai settori strategici».

«L’unico aspetto che continuiamo a considerare progresso riguarda l’aumento del Pil, che per chi si occupa di ecologia e di etologia del comportamento animale è una visione molto riduttiva», spiega Dino Scaravelli, professore di Biologia animale all’Alma Mater Studiorum di Bologna. Come convivere allora con i nostri vicini selvatici, considerando che non considerano più la natura soddisfacente ai loro bisogni?

La “sindrome Disney” e la spettacolarizzazione animale
La “favolizzazione” degli animali promossa dai film di animazione è un modello di cui ancora oggi abusiamo nel rapporto uomo-animale, dimenticando che dovremmo rispettare la loro natura selvatica. «La gente continua a dare da mangiare alle volpi pensando di aiutarle, ma così si espongono ai pericoli. Un altro esempio riguarda i parrocchetti dal collare che si sono facilmente adattati ai parchi e giardini delle grandi città: sono una pestilenza per le specie autoctone, tant’è che ci sono studi che hanno collegato la loro presenza alla scomparsa di piccoli rapaci e roditori. Lo stesso si può dire per le tartarughe americane d’acqua dolce nei torrenti e fontane», sostiene Rufino.

Chi ha sofferto dell’eccessiva vicinanza all’uomo è invece Juan Carrito, l’orso simbolo del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, diventato celebre sui social per i suoi comportamenti confidenti e morto investito a gennaio 2023 sulla SS17. Per il Wwf l’episodio rappresentava una “tragedia annunciata”, ma l’Ong non è l’unica a credere che la strumentalizzazione degli animali sia eccessiva. 

«L’umanizzazione degli animali è una “sindrome Disney”: gli orsi non sono giocattoli, i marsicani oggi sono solo sessanta, anche perderne uno vuol dire sacrificare una fetta genetica della specie», prosegue Rufino, secondo cui «dobbiamo mantenere il più possibile la distanza tra uomo e animale, utilizzando anche dei dissuasori se necessario, in modo tale che se si aggirano nelle città siano spaventati a morte».

«Se continuiamo a immaginare le aree protette in funzione del turismo, rimarranno aree di sfogo dell’egoismo umano anziché di convivenza», aggiunge il professor Scaravelli, «la gente dimentica che l’orso è l’unica specie in Europa effettivamente pericolosa per l’uomo, al contrario dei lupi su cui si fa terrorismo. Si può parlare della stessa pericolosità persino per i cervi a Villetta Barrea, che normalmente si crede abbiano la docilità di Bambi».

L’economia della natura in Italia e la politica ambientale
Secondo quanto riportato dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn), oggi sono 37.480 le specie di animali a rischio d’estinzione. Solo nell’Unione europea corrispondono al venticinque per cento e la causa principale è purtroppo da riscontrare proprio nelle attività antropiche. 

«I Paesi che scelgono di investire nell’economia della biodiversità diffondono un segnale molto importante di come quella società percepisca l’ambiente», aggiunge Scaravelli. «In questo periodo si parla molto dei servizi ecosistemici, che ruotano intorno all’idea che bisogna difendere la natura perché ci offre dei servizi», come nel caso delle foreste che conservano CO2, immagazzinano il carbonio e ci danno ossigeno. «Dovremmo abbandonare la visione antropocentrica della tutela naturale e concepirla multi-sistemica, come nostra responsabilità perché siamo parte della natura stessa, non in chiave utilitarista o antagonista», spiega l’esperto. 

A proposito delle risorse stanziate in Italia, la legge di Bilancio ha rifinanziato il Fondo per il recupero della fauna selvatica con un milione di euro per il 2023, destinato a sostenere l’attività di tutela e cura della fauna selvatica svolta dalle associazioni ambientaliste riconosciute. Anche se il governo ha rinnovato i fondi al Ministero dell’Ambiente, tuttavia anche da parte delle istituzioni la tutela delle specie a rischio non è vista come un’emergenza che meriti uno specifico dicastero, tant’è che da alcuni mesi si parla di spostare la competenza sulle faune selvatiche al ministero dell’Agricoltura, facendo esplodere le associazioni animaliste.

«Significherebbe dissociare la fauna dalle aree protette, gli habitat, la biodiversità che resterebbero al ministero dell’Ambiente», denuncia la Lega anti vivisezione (Lav). «Si subordinerebbe la tutela della fauna alla gestione e alla attività venatoria, che è l’unico vero scopo di tale disegno. Si tratta di elementi illogici, incostituzionali, inconcepibili in piena crisi climatica e della biodiversità».

«Serve un governo che investa davvero in questo settore, perché siamo il primo Paese in Europa per biodiversità», interviene Rufino. «Tutte le direttive e le convenzioni che stabiliscono le specie protette in Europa non sono recepite in Italia, per esempio le direttive habitat stabiliscono che i serpenti sono animali protetti, ma li si uccide lo stesso perché confusi spesso per vipere. Si parla poi di aprire la caccia ai lupi, ma a livello europeo è un animale ancora intoccabile e si arriva anche a sanzioni europee per chi trasgredisce, eppure esistono comunque deroghe sui calendari venatori, le Regioni sorvolano e continuano così ad assecondare gli elettori». 

Secondo l’ultimo report Legambiente, infatti, il numero complessivo di specie di mammiferi e uccelli cacciabili in Italia corrisponde oggi a ben quarantotto specie, molto sopra la media europea che si ferma a ventisette specie cacciabili. Nella Penisola, dal 2009 al 2020 – anni a cui si riferiscono i dati analizzati da Legambiente e ricevuti dalle forze di polizia – sono stati riscontrati oltre 35.500 illeciti contro la fauna selvatica, ben 2.960 ogni anno, con una media di quasi duecentocinquanta illeciti riscontrati ogni mese. Il numero più alto di reati in questi anni, dal 2009 al 2020, si è registrato nel Lazio (5.049 illeciti), in Lombardia (3.657) e Campania (2.937).

«Ci sono tantissime aree protette che potrebbero diventare, con la giusta attenzione delle istituzioni, motori culturali per la conservazione naturale, i Calanchi di Atri sono un esempio. Mentre la grande foresta di montagna è facilmente percepibile come tesoro ambientale, le praterie e le rive melmose non sono viste come ricchezze per la biodiversità perché non generano turismo, eppure sono fondamentali in una politica globale di tutela, soprattutto in un paese come il nostro», continua Scaravelli.

Soluzioni semplici e cattive abitudini
C’è però un modo di trovare un compromesso tra vita selvaggia e urbanizzazione. Uno studio di European wildlife comeback dimostra come l’efficace protezione legale, il ripristino dell’habitat e la reintroduzione possano guidare il recupero delle specie. «I ponti verdi, che permettono agli animali di muoversi lontani dalle superstrade, possono essere una soluzione conveniente, purtroppo però costano alcuni milioni di euro. In Italia abbiamo tecniche che potremmo applicare con costi relativamente bassi. Basti pensare al conferimento dei rifiuti: se la gente continua a buttarli nei cassonetti all’aperto, le volpi continueranno a mangiare quel che trovano e ad arrivare in città», spiega il professor Scaravelli. 

«Quando si verificano certe situazioni, poi, le istituzioni spesso danno per buone le soluzioni delle associazioni di quartiere che si improvvisano cultrici ambientali con l’accesso a Internet, bisogna coinvolgere gli esperti e i tecnici esperti nella gestione degli ecosistemi», aggiunge. 

Come si tutela in Europa la biodiversità
Nel 2021 il Parlamento europeo ha approvato la strategia per la biodiversità al 2030, un piano ambizioso e a lungo termine per proteggere la natura e invertire il degrado degli ecosistemi. L’ultimo report Legambiente sulla tutela della fauna selvatica e il bracconaggio in Italia racconta che la normativa attualmente in vigore, la direttiva 43/92, tutela solo l’1,1 per cento di tutte le specie animali presenti stabilmente o temporaneamente nel nostro territorio e non regolamenta le tante attività umane come agricoltura, forestazione e viabilità che hanno quotidiana relazione con la fauna selvatica omeoterma.

«La crisi climatica sta sconvolgendo i bioritmi di tante specie ibernanti per la mancanza di neve: i ricci prima di tutto, i tetraonidi nelle Alpi, le arvicole delle nevi e le lepri, abbiamo poi decine di stormi di rondoni e rondini a rischio sopravvivenza», afferma Scaravelli. 

«Anche se i pipistrelli, che dovrebbero andare in letargo, con i cambiamenti climatici e le giornate a venticinque gradi in pieno gennaio si risvegliano e in tre giorni consumano i grassi che dovevano disperdere in quattro mesi, morendo di fame», afferma Rufino. 

«Il problema della loro tutela non riguarda solo la crisi climatica, è che non c’è interesse in questo Paese a cambiare le cose da un punto di vista politico e culturale. Non ci rendiamo ancora conto del disastro ambientale delle nostre azioni e lo dimostra la superficialità con cui condividiamo certi luoghi comuni, come chi è felice di andare al mare d’inverno: voglio vedervi quando tra alcuni anni andremo a quello stesso mare con la tanica a causa della crisi idrica, perché l’acqua allora sarà diventata preziosa come l’oro», conclude. 

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