Incontrare il nuovo è parte del lavoro di ogni condottiero. Nuove terre, nuovi popoli, nuovi volti, nuove usanze. Persino nuovi gusti.
E di novità doveva già averne incontrate tante Giulio Cesare il giorno in cui si recò a pranzo a casa del suo amico Valerio Leone, a Milano. Milano stessa era, per certi versi, una novità, così distante da Roma e dalle sue comodità. Agli occhi dei suoi compagni appariva rozza, scomoda, barbara. Gli stessi generali che lo accompagnavano faticavano a nascondere di non avere nessuna voglia di partecipare a quel banchetto, anche se nessuno osava dirlo apertamente. Ma il brusio a tavola si faceva sentire: risatine, battute sussurrate a fior di labbra, piccoli ammiccamenti che volevano sottolineare l’inadeguatezza del loro ospite rispetto alle aspettative.
Cesare li guardava, un po’ come una maestra guarda dei bambini non troppo educati, con un misto di irritazione e pazienza, ma poi si dimenticò quasi di loro, preso dalle chiacchiere con il suo amico e dal susseguirsi dei piatti in tavola.
Valerio Leone, da parte sua, teneva moltissimo a quel convito, e voleva far provare ai suoi ospiti le specialità locali. Così fece servire un piatto di asparagi conditi, invece che con l’olio cui i Romani erano abituati, con quello che sembrava uno strano, bizzarro condimento aromatico. Era semplicemente burro, fuso, ma loro non lo avevano mai assaggiato. Immangiabile, a detta dei suoi compagni, disgustoso, quasi un affronto: le critiche e i lamenti, fino a quel momento quasi silenziosi, esplosero travalicando le buone maniere.
Cesare mangiò tutto quello che aveva nel piatto, pulì l’ultima goccia di burro con un pezzetto di pane. Poi parlò. «Se non vi piaceva, potevate limitarvi a non mangiarlo. Voi, che parlate tanto di raffinatezza e buon gusto, avete dato prova di una rozzezza al di là di ogni limite. Maleducato e zotico è chi accusa di scarsa educazione un ospite tanto premuroso». Silenzio. Poi qualche debole parola di scusa. Poi una ripresa delle chiacchiere, non senza imbarazzo. Sembrava che i suoi avessero capito, ma a Cesare non bastava. Il nuovo era parte del suo lavoro.
Andò a letto, e mentre cercava di addormentarsi ripensava all’accaduto. Ai commenti dei suoi generali, alle sue stesse parole. Ma soprattutto al sapore di quel “burro”. Insolito, sicuramente, ma con qualcosa che lo affascinava. Dormì. E la mattina dopo, fresco e riposato, cercò Valerio Leone. Si fece raccontare tutto di quel burro, di come non ci fosse la possibilità di coltivare olivi lì in giro e di come far arrivare l’olio da Roma fosse terribilmente costoso; di come i contadini locali producessero quel condimento a partire dal latte delle mucche, che invece abbondava, e di come lo usassero in mille modi, persino spalmato sul pane.
A pranzo Cesare chiese di avere dell’altro burro. Come aveva detto Valerio Leone, provò a spalmarlo sul pane. Poi, pensando a quello che mangiava sempre a casa, si fece passare il vasetto con il garum, la saporitissima salsa a base di pesce che dava gusto a quasi tutti i piatti della cucina di Roma. Un velo di garum sul burro, un morso ed ecco il miracolo: un equilibrio perfetto di dolce e salato, di pungente e di morbido. Roma e Milano tra due fette di pane.
Ovviamente Valerio Leone diede subito ordine in cucina di riprodurre la leccornia appena creata dal condottiero. E ovviamente piacque a tutti. Non solo perché il creatore della ricetta era Cesare, e nessuno avrebbe osato contraddirlo. Ma anche perché era buona, tanto che ancora oggi, passati secoli e cambiati completamente i gusti, pane, burro e acciughe rimane una prelibatezza apprezzata da tutti.