Per una volta Elon Musk, a modo suo, l’ha detta giusta, l’Italia sta scomparendo. Non si tratta di un’emergenza acuta, come il Covid, quanto di un trend di lungo periodo apparentemente inesorabile, che recentemente, ha subito un’accelerata. Sono poche le province del Paese che tra 2022 e 2023 hanno registrato un aumento della popolazione, per quanto ridotto: Parma in testa, poi Trento, Milano, Monza e Brianza, Prato, Bolzano, Modena e Pavia, tutte aree del Centro-Nord. A queste si aggiunge Ragusa, unica eccezione in un Mezzogiorno alle prese con un declino così importante che in soli dodici mesi in sette province, tra le più rurali e già meno popolate, il calo degli abitanti è stato superiore all’uno per cento.
Da Potenza a Oristano, da Nuoro a Enna. Se il trend continuasse a questo ritmo in queste zone si avrebbe un dimezzamento della popolazione prima del 2090. Se poi il confronto è con il 2019, prima del Covid, all’incirca nelle stesse aree, le più marginali del Meridione, il calo è addirittura superiore al quattro o al cinque per cento. Il novero delle province che non hanno visto una riduzione degli abitanti diventa ancora più limitato.
Sono numeri che apparentemente dipingono l’esistenza di almeno due tipi di Italia. Quella in cui il calo della popolazione è cominciato da diversi anni e che guarda caso è più indietro economicamente, e quella in cui il declino demografico è più recente, in cui vi sono ancora fiammelle di stabilità, o perlomeno in cui la riduzione degli abitanti è ancora lieve. Quest’ultima Italia è la più produttiva, include le aree con l’industria e i servizi più competitivi all’estero, in cui ha luogo gran parte della crescita del Pil.
In realtà, però, è un po’ più complicato di così, perché a determinare le variazioni della popolazione sono più variabili: c’è sia l’andamento della differenza tra nascite e morti che quello dell’immigrazione. Quest’ultimo, poi, comprende sia i movimenti tra l’Italia e l’estero che quelli interni.
Le Italie sono quindi anche più di due. C’è quella in cui effettivamente gli abitanti scendono soprattutto per cause naturali, come la Liguria e il Piemonte orientale, ma in cui il saldo migratorio è positivo, anche se non basta a compensare il crollo dei nuovi nati. C’è quella parte di Paese, il Mezzogiorno più interno, in cui il declino è su entrambi i versanti, sia quello naturale che dei trasferimenti, e in cui l’esodo degli abitanti annulla l’arrivo di stranieri. Poi c’è l’altro Sud, per esempio il napoletano o il palermitano, in cui vi è ancora una certa fecondità, i nati non sono molti meno dei morti, ma l’emorragia di abitanti verso il Nord è molto forte. E infine vi sono le già citate zone del Settentrione in cui oltre a un afflusso di immigrati dal Mezzogiorno e dall’estero il calo naturale delle nascite è meno intenso e riesce a essere compensato da questi trasferimenti.
Venti anni fa era più semplice, le regioni e le province in cui i morti superavano i nati ricevevano un flusso migratorio maggiore, e viceversa quelle da cui gli abitanti se ne andavano, o in cui arrivavano meno stranieri, avevano perlomeno un saldo naturale prevalentemente positivo.
Oggi il Paese appare ancora più divaricato: è sempre più ampia la distanza tra quelle aree che rischiano di assomigliare sempre più alla Spagna interna “vaciada”, vuota, come lì la chiamano, Oristano, Crotone, Isernia, Potenza, e quelle più dinamiche, Parma, Brescia, Bergamo, Milano. Sono queste ultime aree quelle che potrebbero essere prese ad esempio per comprendere come provare a salvare la demografia di questo Paese. Ma anche tra i casi più virtuosi ci sono differenze.
Nel 2022, infatti, le realtà più di provincia sembrano aver attirato maggiore immigrazione della metropoli milanese, che, anzi, ha visto un saldo migratorio interno praticamente nullo e invece risulta avere un bilancio demografico complessivo buono per la minore differenza tra nati e morti. Al contrario province come Parma, Prato, Pavia, vedono un declino naturale più sostenuto, ma è compensato dall’arrivo di nuovi abitanti dall’estero e dal resto d’Italia.
La sensazione è che, dopo il Covid, Milano oltre ad attirare popolazione la stia anche perdendo, magari verso le aree vicine, come appunto Pavia o la Brianza, dove la vita costa meno.
In sostanza la formula per salvarsi, per ora, dal declino demografico è essere un’area con un’economia vivace, diversificata, industriale, agricola, dei servizi, con un tenore di vita sostenibile (non milanese), che attiri persone alla ricerca di lavoro non solo dall’estero.
I dati ufficiali mostrano come, escludendo l’enorme eccezione dell’Alto Adige (che segue più tendenze tedesche che italiane) la fecondità di una provincia come Parma, che rispecchia proprio quelle caratteristiche, dopo avere superato già negli anni Duemila la media italiana ora è superiore a quella della Città Metropolitana di Milano.
Il tasso di fertilità in quest’ultima è ormai simile a quella del pavese, che una volta superava, e non di poco. La provincia ricca e tranquilla, fatta un tessuto economico diffuso, di centri urbani medi e piccoli e non metropoli, o di comuni che alle imprese di tale metropoli sono comunque collegati, sarà l’ultima a soccombere al declino. Ma questo oggi appare inesorabile, anche perché le migrazioni interne sono a somma zero e quelle dall’estero, a dispetto delle presunte emergenze, non cresceranno molto.
Se il dinamismo di queste aree non riuscirà a sostenere, da solo, un’inversione di tendenza delle nascite per tutto il Paese, fornendo magari risorse per politiche di welfare adeguate, questa resistenza provvisoria al calo della popolazione rimarrà una mera curiosità statistica.