Propaganda d’emergenzaIl perenne stato di inadeguatezza del Governo nel gestire l’immigrazione

L’ultimo provvedimento di Palazzo Chigi appare come l’ennesimo tassello di una narrazione securitaria che non punta a risolvere il problema sbarchi, ma solamente a creare confusione mascherando la propria incapacità decisionale

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Emergenza. Dal latino e-mergere, qualcosa che viene a galla, che spunta in superficie. Etichetta tristemente appropriata alla questione dell’immigrazione, c’è da ammetterlo. Nonostante la complessità intrinseca di un così ampio e millenario fenomeno umano, è ormai assodato come, almeno in Italia, il termine evochi inconsciamente l’immagine di un barcone alla deriva, di notte, in una zona imprecisata del Mediterraneo, stracolmo di persone dalla pelle scura, in procinto di naufragare o, spesso, già naufragato. Dissolvenza, buio, stacco. Nella scena successiva, uno, due, dieci, cinquanta corpi inermi, freddi e gonfi vengono a galla. Spuntano sulla superficie. Emergono.

Sì, tra immigrazione ed emergenza c’è sicuramente una macabra connessione. La quale tuttavia rimane prettamente etimologica e, se vogliamo, narrativa, escludendo ogni possibile associazione sostanziale tra i due termini. Il motivo è piuttosto semplice: non c’è nulla di nuovo, nulla di eccezionale o sconosciuto con cui dover fare improvvisamente i conti. L’Italia e l’Europa hanno a che fare con fenomeni migratori regolari e irregolari da decenni (soffermandosi solo sulla parte di storia recente), e da decenni puntualmente faticano ad approntare soluzioni strutturali che portino a una vera gestione dei flussi di persone verso il Vecchio Continente. Una fatica che i più sospettosi, amanti delle dietrologie, chiamerebbero quasi volontà.

Pensiamo al naufragio avvenuto all’alba del 26 febbraio 2023 a centocinquanta metri dalle coste di Steccato di Cutro, in Calabria. Una tragedia che ha portato alla morte accertata di oltre novanta persone, con decine di dispersi. Sono ancora in corso le indagini avviate dalla magistratura per delineare le responsabilità delle istituzioni (Guardia Costiera, Guardia di Finanza, ministeri competenti e agenzia europea Frontex) e le falle nel mancato soccorso, nell’evento che qualcuno ha addirittura definito «Strage di Stato».

Quel tragico momento della storia italiana, al di là delle speculazioni su colpe dirette o intenzionalità, è stato certamente funzionale a un certo tipo di comunicazione politica, intrisa di simbolismo e rafforzata da provvedimenti legislativi dal chiaro sapore propagandistico. Dichiarazioni e normativa si fondono, per dare vita a un racconto della realtà che cementi la percezione collettiva sulle migrazioni in una prospettiva ben definita, quella securitaria, e che dia legittimazione all’utilizzo di strumenti straordinari per far fronte all’inadeguatezza della politica.

Basti ricordare il Consiglio dei Ministri tenutosi proprio a Cutro, da cui è scaturito il Decreto legge omonimo, ufficialmente volto a contrastare l’insieme di variabili che hanno condotto al naufragio ma che secondo molti osservatori porterà, paradossalmente, ad aumentare le probabilità che si verifichino nuovamente situazioni simili. 

Contemporaneamente, poi, è attiva la legge che regola l’attività delle navi Ong in mare. Comprende una serie di restrizioni (non conformi al diritto internazionale) alle attività di salvataggio, prevede pesanti multe per chi non le rispetta e ha finora generato una serie di fermi amministrativi a causa dei quali, al momento, le navi di soccorso civili sono praticamente assenti dal Mediterraneo. 

Il Consiglio d’Europa il 31 gennaio aveva raccomandato al governo italiano di revocare il decreto (poi diventato legge) fino a quando non fossero state prese «misure adeguate ed efficaci per garantire che le vite dei migranti non siano messe a rischio» dalla mancata efficacia del lavoro delle Ong. Secondo i giuristi del Consiglio il provvedimento avrebbe comportato una serie di «chilling effects», ovvero effetti intimidatori per via legislativa, all’operato delle associazioni.

È questo il contesto in cui si è arrivati alla dichiarazione dello stato di emergenza nazionale in seguito al drastico aumento dei flussi migratori dal Mediterraneo Centrale: sono oltre trentaduemila i migranti sbarcati da inizio anno, rispetto ai poco più di ottomila arrivati nello stesso periodo del 2022. Oltre a prevedere la nomina di un commissario, il provvedimento consentirà per almeno sei mesi di agire in deroga al codice degli appalti e non indire le gare previste in situazioni ordinarie, al fine di risolvere più efficacemente la situazione di sovraffollamento dell’apparato di accoglienza nazionale.

Considerando che in passato l’Italia ha affrontato situazioni numericamente più impegnative – nel 2016 erano sbarcate 181mila persone – senza ricorrere a procedure straordinarie, la prima motivazione che si è portati a considerare per l’attuazione dell’attuale provvedimento è una sostanziale incapacità di questo governo nel gestire il fenomeno, costretto a ricorrere ai fondi emergenziali (si parla di cinque milioni, che possono arrivare fino a 300) per farvi fronte efficacemente. 

Con una battuta, viene da pensare che, visto il numero relativamente basso di sbarchi (comparato agli anni passati), l’annuncio sarebbe adeguato solo se contemplasse una visionaria proposta per cambiare il nome ufficiale del nostro Paese. Non più Repubblica Italiana, bensì Stato di Emergenza.

Sì, perché la nostra nazione (come tutto il continente europeo) ha sempre affrontato il fenomeno migratorio in ottica emergenziale, nonostante fosse chiara la necessità di approntarvi soluzioni strutturali, che comportassero la gestione efficace dei soccorsi, il rispetto dei diritti umani e la ripartizione equa delle persone in tutti i Paesi dell’Unione Europea. 

L’attuale tendenza verso scenari ancora più critici, che replicherebbero quanto già successo anni fa, dovrebbe spingere a considerare finalmente una vera riforma europea del sistema di accoglienza e gestione. Chi scrive si rende però conto di quanto vuote possano sembrare queste parole, che risuonano come un disco rotto in un mare di discorsi altisonanti mai suffragati delle politiche attuate dall’Italia e dall’Europa negli ultimi anni: la riforma del regolamento di Dublino approvata anni fa dall’Europarlamento e mai approvata dal Consiglio; i continui finanziamenti ai Paesi di transito per bloccare i flussi, come Libia, Turchia e Stati dei Balcani occidentali, nonostante le accertate e sistematiche violazioni dei diritti umani; le responsabilità dirette e indirette in tali violazioni anche di agenzie europee come la stessa Frontex; le sopracitate norme ostruzionistiche alle attività di soccorso.

Insomma, il meccanismo (indipendentemente dal fatto che sia figlio dell’intenzionalità o semplicemente dell’indifferenza) è chiaro, e appare sconfortante: si alimenta il problema, si disincentivano i salvataggi, si genera l’emergenza, ci si fa propaganda sopra, sbandierando una sequela di dichiarazioni e provvedimenti apparentemente risolutivi del problema. E soprattutto si acquisiscono poteri speciali, più o meno limitati.

Una formula che riporta ai decenni e agli anni scorsi, e che richiama le politiche passate alla storia attraverso fortunate definizioni come «Guerra alla droga», «Guerra al terrore», «Guerra al Covid». Al gruppo si è recentemente aggiunta la “guerra all’immigrazione clandestina” annunciata da Giorgia Meloni durante la conferenza stampa sul decreto Cutro: «Quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo».

Nonostante la frase abbia raccolto soprattutto reazioni di ilarità sulla scelta di parole, la “guerra al traffico di esseri umani” è l’ennesima narrazione di ispirazione bellica che prevede una lotta dai contorni indefiniti e potenzialmente infinita nei confronti di un nemico etereo, non fisicamente percepibile. Una cornice di senso che implica una vittoria nonostante questa sia materialmente impossibile, contro un avversario concettuale con cui la battaglia è eterna, come sono eterni i poteri e i mezzi necessari per combatterla. 

La prospettiva di un trionfo è indispensabile per la legittimazione da parte dell’opinione pubblica verso politiche sempre più restrittive, sempre più straordinarie, eccezionali, e sempre meno in linea con i principi giuridici e morali su cui l’Unione Europea si fonda. Serve qualcosa contro cui scagliarsi, siano i trafficanti (che spesso coincidono con la cosiddetta “guardia costiera libica” che l’Italia continua a finanziare), gli stessi migranti («Se fossi disperato non partirei, perché sono stato educato alla responsabilità» per citare il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi), o siano le navi delle organizzazioni non governative, occhi indipendenti nella frontiera più letale del mondo. 

Le Ong, tra l’altro, sono state i primi veri bersagli di questo tipo di narrazione: era il 2017 quando l’allora vicepresidente della Camera dei deputati, Luigi Di Maio, coniò l’ormai famosa definizione di «Taxi del Mediterraneo», rafforzando l’aura di sospetto attorno a chi salva vite in mare. A tal proposito, è curioso come la dichiarazione dello stato di emergenza sia avvenuta dopo aver neutralizzato le ong, che secondo la destra costituiscono “fattore di attrazione”: anche senza di esse, gli sbarchi sono quadruplicati. Un’esplicita ammissione di inadeguatezza.

Il fine ultimo di tutto ciò è presto detto: il dominio dell’agenda del discorso pubblico attraverso il caos comunicativo. Ore e ore spese da politici, media, talk show e cittadini a discutere dell’argomento, mescolando immigrazione irregolare, traffico di esseri umani, salvataggio in mare, associazioni non governative, immigrazione regolare, calo demografico, mercato del lavoro, corridoi umanitari. L’immigrazione diventa un calderone nel quale buttare di tutto un po’, trascinando a lottare nel fango anche le fazioni opposte. 

È noto come negare, contrastare una narrazione sia essa stessa una ripetizione che la rafforza (dicendo «non pensare all’elefante» a cosa si pensa?), e costituisca già di per sé una vittoria di chi l’ha costruita sul piano comunicativo. Ma c’è di più. Le opposizioni politiche, nel tentativo di riportare nell’elettorato una prospettiva favorevole all’immigrazione, rispondono alle provocazioni della destra e al razzismo sistemico delle istituzioni con il sempreverde frame utilitaristico: gli immigrati ci servono. Per contrastare il calo di natalità, per rispondere alle esigenze del mercato del lavoro, perché è sociologicamente assodato che la presenza di popolazione straniera innalzi la qualità sociale degli autoctoni.

Tutte motivazioni valide, sostenute anche dall’informazione di stampo progressista, che rischiano però di generare un effetto collaterale: la percezione che esistano migranti di serie A e migranti di serie B, chi ci serve e chi non ci serve. Una percezione che è forse ancora più pericolosa e subdola della discriminazione esplicita, e che porta a subordinare i diritti umani e l’empatia verso il prossimo al nostro vantaggio materiale. Forse è il caso di cambiare prospettiva. 

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