L’era imbecilleLa mastectomia cosmeticamente accettabile e la cialtronaggine dei medici (e di tutti noi)

Il chirurgo Ian Paterson è in galera dal 2017, gli sono morte 675 pazienti su 1206 operate di cancro al seno. La sua storia da cinema, ma senza finale geniale

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Una cosa che succede invecchiando è che cambia il senso dell’umorismo. Per molta parte della mia vita, uno dei miei espedienti comici preferiti consisteva nella cronaca delle mie diagnosi sbagliate. Lasciate che vi racconti di quella volta che – figlia di medico, nipote di medici, in vacanza con medici – mi curarono per la malaria, e avevo la varicella, narravo garrula nei dopocena.

Negli anni, l’ilare aneddoto è diventato cupo presagio: una vita di diagnosi sbagliate, di medici cialtroni, di per fortuna non m’è mai venuto niente di serio sennò sarei morta sicuro. A una certa età, è tutto un complesso di cose, quello che ti fa venire lo sconforto.

Intanto c’è il fatto che le persone attorno a te si ammalano molto più spesso di quant’avvenisse a vent’anni, e l’idea che la categoria preposta a occuparsene scambi la varicella per malaria rende plausibile qualunque folle ipotesi: siamo sicuri che questa cisti della mia amica non sia una gravidanza extrauterina? Che questa influenza stagionale del mio vicino non sia meningite? Siamo sicuri che questo dottore non sia imbecille come la maggior parte dell’umanità?

Eravamo più giovani, quando i medici cani ci facevano ridere, ma soprattutto non avevamo i social. Sì, non ho mai incontrato un dottore che sappia fare il suo mestiere, pensavo a trent’anni, ma è di certo perché sono sfortunata. Poi sono arrivati i social e ho scoperto che la classe dirigente è formata quasi solo da imbecilli, e perché mai i medici dovrebbero fare eccezione.

Come aggravante, tra i miei trentaepocopiù e i miei cinquant’anni sono andate in onda diciannove stagioni di “Grey’s Anatomy”, quattrocentoquindici ore che avrei potuto trascorrere mandando a memoria la Recherche e ho invece passato a guardare una serie in cui i medici pensano solo alle loro vite sentimentali, e alla fine però hanno sempre un guizzo con cui risolvono un caso impossibile. Guizzo che però è chiaramente un trucco televisivo: nella realtà, se ti ritrovi in un ospedale vedi nei medici veri la stessa distrazione della tv, la stessa cialtroneria della tv, ma mai la stessa genialità della tv.

Il Sunday Times ha fatto un’inchiesta tra le ex pazienti di Ian Paterson, un chirurgo che operava donne malate di cancro al seno e che è in carcere dal 2017, condannato a vent’anni per diciassette imputazioni di lesioni dolose. In corso ci sarebbe un’indagine ulteriore, sulla morte di seicentocinquanta pazienti.

Paterson diceva di aver inventato la cleavage-sparing mastectomy, una mastectomia che permetteva di conservare una scollatura piacente. «Dite così, poi cambiate idea», pare abbia detto a una paziente (poi morta) che gli aveva chiesto di togliere tutto e si era invece risvegliata dall’anestesia con ancora le tette. Ovviamente per farti conservare la scollatura doveva lasciare del tessuto, ovviamente lasciando del tessuto c’era il rischio che il cancro si ripresentasse e metastatizzasse.

Come ha detto uno specialista del settore al quale ho chiesto di spiegarmi come fosse andata, «di cancro si muore», e può accadere che anche dopo un intervento la paziente muoia. Ma se è vero, come dice un documento prodotto nel 2017 da una fondazione legata al servizio sanitario inglese, che a Paterson sono morte 675 pazienti su 1206 mastectomie, ecco, il sospetto (che lo specialista trasforma in certezza) è che non siano esattamente proporzioni normali, in un secolo in cui il cancro al seno è molto curabile.

L’invenzione della mastectomia cosmeticamente accettabile mi ha fatto venire in mente “Malice”, che a ottobre fa trent’anni. Nel film un chirurgo arrogante asportava le ovaie a Nicole Kidman senza una giustificazione clinica. Durante l’udienza, al chirurgo – interpretato da Alec Baldwin – viene rinfacciata una valutazione giovanile in cui il primario aveva scritto ch’egli soffriva d’un certo qual delirio d’onnipotenza. Lo sventurato avvocato domanda, e Alec Baldwin – in uno dei primi tra i molti favolosi monologhi scritti da Aaron Sorkin per personaggi d’ego e di genio – risponde.

«Mi chiedo se abbia una vaga idea di che razza di talento bisogna avere per essere a capo di un’équipe chirurgica. Quando qualcuno entra nella cappella dell’ospedale e s’inginocchia e prega che la figlia non muoia dissanguata, chi crede che stia pregando? Legga la bibbia, e vada in chiesa, e se è fortunato vincerà pure la riffa, ma se sta cercando dio, dio era nella sala operatoria numero due, il 17 novembre, e non gli piace essere contraddetto. Mi chiede se ho un delirio d’onnipotenza? La risposta è: io sono onnipotente».

Leggevo la storia di Paterson e un po’ mi sembrava Alec Baldwin, un po’ no. Perché c’erano sì le accuse di lasciare tessuto canceroso pur di far vedere che lui era così bravo da toglierti il cancro lasciandoti le tette. Ma c’erano anche le accuse contrarie, le pazienti cui aveva fatto fare chemio inutili, o alle quali aveva consigliato l’asportazione di tette che il cancro non ce l’avevano. Insomma: più il pasticcio d’una storia vera che la nitida coerenza narrativa d’una sceneggiatura di Sorkin.

Avrei voluto che questa folle storia avesse quella magnificenza che culmina in monologhi stronzi e perfettissimi, e invece mi sa che è sempre la solita vicenda di baristi che fanno i cappuccini troppo caldi, idraulici che sbagliano a cambiarti i tubi, maestre elementari che t’insegnano a non accentare «sé stesso», avvocati che non preparano le arringhe. Decenni di sceneggiati in cui i medici hanno ogni sorta di difetto caratteriale ma mai sono afflitti da incompetenza professionale, seguiti da qualche anno di pandemia e di conseguente riduzione a santino della figura del professionista della sanità, e quasi ci dimenticavamo che il tasso di cialtronaggine è lo stesso in tutte le professioni. Ci voleva uno che ne ha ammazzate a centinaia nell’arco di due decenni, per ricordarcelo.

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