Quand’avevo vent’anni, minacciavo il suicidio per noia ogni volta che qualcuno avviava uno dei due dibattiti che più andavano in quel secolo: che cos’è la satira, e che cos’è la sinistra.
Adesso che ne ho cinquanta, ogni tanto qualcuno prova ancora a chiedersi cos’è la satira (ma non attecchisce), nessuno più si chiede cosa sia la sinistra (sarebbe come chiedersi cos’è un calesse, e non in senso troisiano), e tutti in compenso sono smaniosissimi di discutere di cosa sia il femminile, e di cosa sia il materno.
Annalena Benini – già autrice che non posso recensire perché in questo Paese ci conosciamo tutti, già prossima direttrice del Salone del libro, già miao stump – ha scritto un libro (un memoir? un romanzo?) che s’intitola “Annalena”; il che, converrete, è un passo oltre rispetto al già sfrenato «mi chiamo Walter Siti, come tutti».
Quando me l’ha detto, sapevo già che l’Annalena del titolo non era lei: aveva accennato anni prima al voler scrivere d’una sua omonima cugina, Annalena Tonelli, missionaria in Africa, uccisa dopo aver costruito ospedali per curare i sieropositivi e insomma quanto di più lontano da noialtre fosse concepibile. Quando Annalena m’ha detto che il libro s’intitolava Annalena, Annalena era un nome che conoscevo.
Primo flashback: una redazione a Trastevere, autunno 2001. Annalena e io siamo arrivate in quell’open space, orrendo come tutti gli open space, nello stesso periodo. Lei ci resterà per sempre, io sono più renitente alla monogamia. Ma questo non è importante. Quel che è importante è: per mesi, non so come si chiami.
Si è presentata (o me l’hanno presentata? Vatti a ricordare) all’inizio, ma io non ho ascoltato abbastanza attentamente il nome. Comincia con Anna. Annabella, come il giornale? Non glielo voglio storpiare: mi chiamo Guia, e non ho mai dimenticato il mattino in settimana bianca in cui mi mandarono a farmi firmare una cartolina dal presidente della Repubblica, e Pertini scrisse «A Guglia». Non voglio passare per una troppo rincoglionita per capire i nomi, senza neppure essere padre della patria.
Ma Annalena non firmerà un articolo per mesi, il nome non c’è modo di scoprirlo – se chiedo a uno dei maschi debolmente eterosessuali e fortemente pettegoli di quella redazione, di sicuro glielo riferiranno e rideranno di me, povera Guglia – e quindi per settimane la chiamo «la stagista».
Finché un giorno mi telefona un caporedattore furibondo dicendo qualcosa tipo: non ti devi permettere. Con la sottile interpretazione psicologica propria dei maschi debolmente eterosessuali, egli s’è convinto che la mia sia una forma di mobbing (che all’epoca, avendo noi tutti maggior confidenza con l’italiano, si chiamava: nonnismo).
A quei tempi Annalena non aveva ancora avuto la polmonite da cui parte questo libro, l’infermiera romagnola non le aveva ancora detto che si chiamava come Annalena Tonelli, e la scoperta che fossero lontane cugine non era ancora stata chiosata dal romagnolo «mo che nome, mo che donna», che ora rimpiangerò sempre sempre sempre non essere stata la mia risposta la prima volta in cui ho incontrato la meno altruista delle due annalene.
Avanzamento veloce, secondo flashback, ottobre 2021, un tavolino di plastica al Salone del libro di Torino. Racconto l’episodio della telefonata furente di vent’anni prima, e di me che non sapevo come chiamarla. Annalena sgrana gli occhi e dice: ma come non l’avevi mai sentito, sei di Bologna. Poiché sono mitomane, sono convinta che sia stato in quel momento che ha deciso di chiamare il suo libro “Annalena”: se neanche le bolognesi sapevano chiamarla, serviva diventasse logo, e così nessuno l’avrebbe più refusata.
Quando Annalena m’ha detto che Annalena s’intitolava “Annalena”, le ho chiesto «ma ai tuoi lettori che dal titolo si aspettano gli racconti gli affaracci tuoi, tu darai soddisfazione?», lei mi ha risposto di sì, e io mi sono disposta a leggere l’unica forma di romanzo che valga la pena leggere: i fatti degli autori coi nomi non cambiati (se non esistesse Proust, direi che solo i romanzieri scarsi cambiano i nomi; per fortuna non esistono le regole: esistono solo le eccezioni).
Come si misura se le cose ci piacciono o no, quando ci conosciamo tutti da una vita, ci siamo tutti affezionati non per sentimentalismo ma per consuetudine, e siamo abbastanza mitomani da essere convinti d’essere i felici pochi che comunque, anche scrivessero «il mattino ha l’oro in bocca», avrebbero risultati migliori di quelli che otterranno i mortali con mesi d’applicazione?
Quand’avevo vent’anni, Jeanette Winterson si chiedeva perché la misura dell’amore fosse la perdita. In trent’anni non ho trovato una risposta, ma so che la misura del successo è quanto ci ripensi.
Il più gran successo della mia infanzia è stato “Il tempo delle mele”. Le mie coetanee si dividevano tra chi s’immedesimava in Vic (quella che si vuole solo innamorare) e chi in Penelope (quella che vuole solo scopare); io m’immedesimavo nella madre.
La madre di Vic faceva la fumettista (che adesso viene spacciato per lavoro da intellettuali, all’epoca era quel che era: disegnavi scemenze); il padre faceva il medico. E a un certo punto, nel secondo film, doveva trasferirsi a Lione, perché lì facevano non so che esperimenti su non so che topi in non so che laboratorio.
Solo che la madre stava per cominciare a lavorare a un cartone animato a Parigi, e il marito le diceva potresti fare avanti e indietro col treno, e lei diceva potresti farlo tu, e lui diceva ma che c’entra, non è lo stesso. «Non è lo stesso perché sei un uomo, e in più vuoi far credere che lavori per l’umanità. Io invece sono una donna e disegno stronzate. Ma io la faccio ridere, l’umanità: capisci? Anche questo è importante».
Ci ho pensato quando sono arrivata al mio punto preferito di “Annalena”, quello al quale ripenso da quando l’ho letto la prima volta. Non «il lato debole della grandezza» né «non ho più paura di sembrare mitomane», che pure mi sembrano due frasi con cui stampare delle magliette (il lato ricco della letteratura è il merchandising).
È un punto in cui contrappone le Annalena altruiste, quelle che vanno in Africa a costruire gli ospedali, e il ceto dolente riflessivo che resta a casa con tutte le comodità ma giura di non dormire la notte pensando ai profughi, e se ridi di questa millantata sensibilità se ne ha a male.
«Ci sentiamo coinvolti nello scrivere che qualche ingiustizia è molto ingiusta. Chiediamo giustizia. Chiediamo cura. Chiediamo uguaglianza. Chiediamo attenzione. Chiediamo salvezza. Chiediamo umanità. Da qualche parte nei nostri giusti articoli scriviamo: e adesso non si può più fare finta di niente. Poi chiudiamo il computer e facciamo finta di niente. Scriviamo: non riesco a pensare ad altro che agli occhi di quel bambino. Ma non è vero, io sto già pensando all’idraulico che non ha risposto al messaggio, al libro che voglio leggere, a quanto mi stanno male i capelli e la faccia intera, alla pipì del gatto che devo trovare assolutamente un modo per neutralizzare l’odore sennò mi ammazzo, a questa frase che vorrei far volare e non ci riesco».
Ci sono due ragioni per cui questa mezza pagina è diventata subito la mia preferita. La seconda è che quest’anno sono dieci anni che cito quel passaggio del “Desiderio di essere come tutti” in cui Francesco Piccolo parla dei doveri dell’editorialista engagé. «Mi telefonavano e mi dicevano: una barca di immigrati clandestini è naufragata, ti va di scriverne? Lo chiedevano a me come ad altri per altri giornali. E io e gli altri scrivevamo un articolo indignato e addolorato in cui dicevamo che era molto brutto che la barca fosse naufragata, che le barche sarebbe molto meglio che non naufragassero; che era molto brutto che gli immigrati non venissero accolti, che era molto brutto in generale che la gente nel mondo soffrisse di fame e di povertà e fosse costretta a prendere barche per andare a cercare fortuna in Paesi più ricchi e che poi queste barche naufragassero».
Grazie, Annalena, che mi permetti di rinnovare il repertorio citazionistico. E, soprattutto, che lo fai senza che a nessuna lettrice venga il sospetto tu le stia facendo da specchio; che lo fai senza che nessuna si riveda nel tuo compiacerti d’aver regalato una tutina brutta al bambino della ragazza rom; che lo fai permettendo alla lettrice saldamente dalla parte dei buoni, quella che vuole aprire il giornale e trovarci scritto che le ingiustizie sono ingiuste, di guardarti e dire: non mi somiglia per niente.
Penso alle lettrici che discuteranno del femminile e del materno, mentre io per tutta la lettura pensavo solo «ah, si è fatta venire la polmonite pur di smettere di allattare»; penso a quelle per cui una madre è una che lavora per l’umanità, e ogni cosa è non illuminata ma contrita, e sia mai che persino a far le missionarie ci si possa divertire; e mi viene il sospetto che forse, oltre a quanto ci ripensi, la misura del valore delle opere è anche in quante interpretazioni opposte se ne possono dare.
Lo so che pensate mi sia persa per strada la prima ragione.
La prima ragione per cui continuo a ripensare a quella mezza paginetta è la madre del “Tempo delle mele”. Sì, d’accordo, le buone azioni sono importanti e meno male che dei sud del mondo si occupano le altre così a noi resta tempo e concentrazione per le stronzate, perché – santa pace – le stronzate sono importanti. Far volare le frasi è importante, farsi stare decentemente i capelli è importante, riuscire a riattaccare il telefono a questo rompicoglioni per tornare a leggere questo libro è importante: «Forse la futilità serve a entrare nella grandezza».