In “Siccità”, l’ultimo film di Paolo Virzì ambientato in una Roma strangolata dalla sete dove l’accesso all’acqua è molto più agevole e spregiudicato per i ricchi faccendieri e i potenti esponenti delle solite caste, la lotta di classe viene sviluppata proprio attorno alla vicenda di una potente famiglia che gestisce lo sfruttamento delle acque di un complesso termale. Per difendere i loro interessi e sedare gli attacchi, gli esponenti di quel nucleo dichiarano di utilizzare una fonte idrica di proprietà. La realtà, però, è ben diversa: quelle acque sono sottratte al pubblico consumo.
Per quanto possa essere stato definito distopico dalla critica, il soggetto rappresentato nel film non si allontana molto dalla realtà, o almeno non da quella che ci ha di appena raccontato il Guardian. Il quotidiano britannico ha descritto un nuovo studio che afferma quanto le piscine, i giardini ben irrigati e le auto pulite delle classi ricche stiano guidando le crisi idriche (nelle città) tanto quanto lo stiano facendo l’emergenza climatica o la crescita della popolazione.
Il Guardian fa riferimento a una ricerca – pubblicata il 10 aprile scorso su Nature Sustainability e firmata dai ricercatori Elisa Savelli, Maurizio Mazzoleni, Giuliano Di Baldassarre, Hannah Cloke e Maria Rusca – nella quale si afferma che negli ultimi due decenni più di ottanta città metropolitane hanno dovuto far fronte a gravi carenze idriche a causa della siccità e dell’uso insostenibile dell’acqua.
E il peggio è ancora da venire: le proiezioni future sono ancora più allarmanti poiché si prevede che le crisi idriche urbane aumenteranno e colpiranno maggiormente coloro che sono socialmente, economicamente e politicamente svantaggiati. Esattamente come accade con tutti gli altri effetti della crisi climatica.
Secondo gli esperti, le crisi idriche urbane diverranno più frequenti e faranno sperimentare nel prossimo futuro carenze d’acqua a oltre un miliardo di persone che abitano nelle città. Infatti, un rapporto della Commissione globale sull’economia dell’acqua dice chiaramente che entro il 2030 la domanda supererà del quaranta per cento. Tuttavia, per quanto siano il cambiamento climatico e l’aumento della popolazione a rendere sempre più preziosa l’acqua nelle grandi città, il problema maggiore deriva dalle disuguaglianze sociali.
«Gli studi scientifici tendono a spiegare l’aumento della domanda idrica come conseguenza dell’espansione delle aree urbanizzate parallelamente alla crescita della popolazione e il cambiamento climatico, nella maggior parte dei casi, è considerato la forza che mette a repentaglio la disponibilità di risorse di acqua dolce alterando le caratteristiche spazio temporali di temperatura e precipitazioni. Tuttavia, queste analisi non riescono a riconoscere come il potere sociale e l’eterogeneità nella società modellano sia il modo in cui si svolgono le crisi idriche urbane, sia chi ne è vulnerabile», recita il paper dello studio.
«Il problema con le analisi depoliticizzate – continuano gli studiosi – è che spesso portano a soluzioni tecnocratiche che rischiano di perpetuare la stessa logica e, a loro volta, riproducono i modelli idrici irregolari e insostenibili che hanno contribuito in primo luogo alla crisi idrica. Le condizioni di scarsità d’acqua e di accesso limitato a essa derivano dalle politiche prevalenti e dalle dinamiche di potere che governano la città».
Ma con un approccio che consenta di esplorare il ruolo che l’élite e le classi di reddito più elevato svolgono nel bilancio idrico di una città – valutando anche la loro capacità di rispondere alle crisi legate alla siccità rispetto ad altri gruppi sociali – si capisce che le future strategie di resilienza alla siccità dovrebbero essere proattive. Inoltre, dovrebbero essere in grado di riconoscere i modelli socio-ambientali a lungo termine che generano le crisi idriche urbane.