Delle promesse elettorali del centrodestra rimarranno coriandoli. Non solo di quelle che si fanno con faciloneria durante i comizi, che si scrivono in un bel programma per mettere d’accordo una coalizione purchessia, tanto quelli dell’altra parte sono frantumati come un bicchiere di cristallo tirato su un muro.
Rimarranno coriandoli sparsi sul pavimento della stanza di Giorgia Meloni anche del castello che in queste settimane il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sta cercando di mettere su, nonostante la prudenza insita nel Documento di economia e finanza scivolato ieri alla Camera per la mancanza di venticinque deputati della maggioranza. È stata bocciata la risoluzione di maggioranza sullo scostamento di bilancio, costringendo il Consiglio dei ministri a riunirsi precipitosamente nel tardo pomeriggio per presentarne una nuova.
Una figura da dilettanti allo sbaraglio mentre a Downing Street la presidente del Consiglio stava incontrando il primo ministro britannico Rishi Sunak. «Una brutta figura», ha ammesso Meloni. Ma il miglior commento è stato quello di Giancarlo Giorgetti: «Non c’è alcun problema politico, è che i deputati non sanno o non si rendono conto». Forse l’uno e l’altro, sicuramente una «imperdonabile sciatteria», come ha sostenuto la leader del Partito democratico Elly Schlein, che ovviamente cerca di insinuare anche il dubbio della «conclamata divisione della maggioranza».
La cosa certa è che andare sotto su una decisione che impatta sui conti pubblici è molto grave, apre uno squarcio sulla capacità dei capigruppo del centrodestra di tenere in aula i parlamentari e non lascia dormire sonni tranquilli a Palazzo Chigi sulla futura manovra di bilancio. Sarà questo l’appuntamento in cui si misurerà la vera tenuta politica del governo se dovesse passare la proposta della Commissione europea sul Patto di stabilità.
Le nuove regole costringerebbero l’Italia a correggere i conti pubblici dello 0,85 per cento del Prodotto interno lordo già per il prossimo anno. In soldoni significherebbe trovare da un minimo di 7 miliardi a un massimo di 15 miliardi, al netto dei soldi necessari per la riforma fiscale per la quale via XX settembre ha già accantonato 4,5 miliardi. Dovranno inoltre essere trovate le risorse per prorogare di un anno il taglio del cuneo fiscale, per rinnovare il contratto dei dipendenti pubblici e per finanziare l’operazione a favore della natalità. La riforma delle pensioni con Quota 41 sarà una chimera.
Sul significato del ritorno del Patto di stabilità nel 2024 rimandiamo all’articolo già pubblicato da Linkiesta. Lo scontro sarà durissimo ed è già in corso. La proposta della Commissione europea dovrà essere approvata dall’Europarlamento, ma soprattutto dal Consiglio europeo in cui siedono i capi di Stato e di governo, i veri padroni del vapore comunitario.
Pesano le spinte della Germania e degli Stati frugali che vogliono più rigore nei confronti dei Paesi maggiormente indebitati come l’Italia. Uno scontro che si farà sempre più rovente con l’avvicinarsi del voto delle Europee della primavera prossima. Sarà il banco di prova della tenuta dei nervi del centrodestra, già sottoposto allo stress test dell’immigrazione, della sottoscrizione del Meccanismo europeo di stabilità e della rimodulazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Anche Giorgetti, il più europeista dei leghisti, dà segni di insofferenza quando dice di avere preso atto della proposta della Commissione che «non ha accolto l’esclusione delle spese d’investimento, ivi incluse quelle tipiche del Pnrr digitale e green deal, dal calcolo delle spese obiettivo su cui si misura il rispetto dei parametri». Per poi aggiungere di non avere gradito le simulazioni tecniche delle correzioni di bilancio, fatte circolare a Bruxelles, che dovrebbe affrontare l’Italia.
Se queste sono le reazioni del moderato ministro dell’Economia, possiamo immaginare quelle che arriveranno da Matteo Salvini. Già la presidente del Consiglio ha fatto capire che Roma non darà il suo via libera se non saranno scorporate le spese per la transizione verde e digitale nonché quelle a sostegno dell’Ucraina.
Il rischio è che la discussione vada avanti a lungo e si infiammi proprio in coincidenza della campagna elettorale per le europee. Sarà più facile gettare la colpa sui rigoristi, sperando che il nuovo assetto di potere a Bruxelles sia più favorevole a Roma. Sarà comunque difficile mantenere le promesse in casa nostra. Ma c’è sempre una via di fuga che finora ha sempre funzionato: alzare l’asticella securitaria, inventarsi nuove emergenze, soddisfare quell’opinione pubblica di destra, fintantoché non si stancherà anche di Meloni.